Con questo nuovo disco solista, a otto anni dal precedente “Bubblegum” l’ex Screaming Trees dimostra di avere ancora tanta energia creativa e di non dare nulla per scontato. Lanegan è un bluesman a tutto tondo, avendo condotto una vita abbastanza travagliata, che molto spesso si è riflessa nello stile musicale. Non questa volta!
Nel senso che il blues del titolo è un’attitudine, una tendenza, ma non lo stile musicale, essendo caratterizzato dall’elettronica. Per questo disco, infatti, Lanegan, influenzato dalla recente collaborazione con gli U.N.K.L.E. e dalla tanta musica elettronica che ultimamente ha ascoltato, ha deciso di limitare al minimo l’utilizzo di chitarre, bassi e batteria, per dare spazio in maniera preponderante a drum machine e sintetizzatori. La scelta si è rivelata azzeccata e coinvolgente, perché anche con questi strumenti traspare il suo blues. L’elettronica utilizzata in questo disco è discreta e di sostegno alle liriche, sempre molto interessanti, intense e profonde. A partire dalla preghiera laica di “Harborview hospital” e dalla ballata circolare avvolgente e profondamente romatica “Gray goes black”, che evoca il post punk dei Joy Division. I suoi grandi amici Greg Dulli e Joshua Homme hanno partecipato in un brano a testa: il primo in “St. Louis elegy”, un blues che si fa trip-hop, per poi toccare terreni epici di rara intensità; il secondo in “Riot in my house”, l’unico brano veramente rock. A “Deep black vanishing train” va senza dubbio la palma come brano più profondo, grazie anche all’arpeggio della chitarra, mentre la palma della malinconia e del blues va a “Bleeding muddy water”, con quella tastiera che trasmette proprio la sensazione delle acque fangose che ti avvolgono. Per fortuna Lanegan continua a stupirci e a rimettersi sempre in discussione.
Vittorio Lannutti

