Articolo di Serena Lotti | Foto di Claudia Mazza
Li avevamo visti l’ultima volta nel 2018 agli I-Days in apertura del concerto dei Pearl Jam, poi gli Stereophonics si sono chiusi in sala di registrazione. E lì sono rimasti. Per soli 11 brevi giorni. Il frontman Kelly Jones ha superato il suo blocco dello scrittore e nella bucolica location del Wiltshire ha sfornato Kind, l’undicesimo album di una carriera iniziata nel 1997, quando allora la band gallese fu consacrata come una delle massime esponenti della seconda ondata del brit pop e di fatto consegnata alla storia grazie a lavori memorabili come Words Get Around e Performance and Cocktail. Da allora la band ha abbondantente soddisfatto critica e pubblico e si è sempre posizionata nei primi posti in classifica, continuando ad essere sempre inarrestabile e feconda di buone produzioni. Kind non è un’eccezione. Di questo ultimo disco in molti hanno scritto bene, in molti hanno scritto e basta. Dopo 23 anni di carriera ci si poteva a buon titolo aspettare un lavoro dalla matrice evoluzionista e sperimentale oppure un disco che non fosse altro che la rassicurante constatazione che se tutto quello che hai fatto per tutta una carriera non ha mai sbagliato un colpo, perchè cambiare strada proprio adesso? E infatti questo è. Kind si ascrive perfettamente nella cifra stilistica della band gallese, con equilibrio e stile, con eleganza e anche un pò di old vs new che non è che lo specchio del lavoro fatto fino ad oggi, in piena coerenza e consistent con l’idea musicale degli Stereophonics. Un lavoro assemblato su sonorità molto made in USA e senza lasciare indietro una spruzzata di sano country blues, morbido e ficcante, che riesce ad essere comunque minimale ed etereo.
Noi li aspettiamo nella splendida location del Lorenzini District, la nuova tensostruttura milanese indoor in Porta Romana dalla capienza importante (3200 posti), suoni spaziali, palco smisurato ed un’organizzazione di livello.
L’audience è tradizionalmente ed anagraficamente poco varia, il mood è quello nostalgico che sa di anni 90, la compostezza è quella tipica degli Xllenials, meno pandemia da smartphone, più occhi sul palco senza filtri digitali, abbracci discreti gli uni agli altri. Un barocchissimo drappo bianco con calate, impunture e macro sbuffi stile drama queen agghinda il palco. Il light designer probabilmente stava tentando di rientrare dell’investimento fatto per le luci del concerto di Natale in Vaticano prima di essere messo sul libro paga degli Stereophonics e si è portato dietro un’accozzaglia di luci a intermittenza degna del The World’s Largest Christmas Tree di Gubbio che restano appese un pò dove capita dando quel classico effetto Jingle Bells. Kelly Jones e soci salgono sul palco accolti da una bella energia, salutano frettolosamente e attaccano con l’adrenalica Bust This Town, uno dei singoli di lancio di Kind. L’opening è bellissimo in effetti. Nostalgico e morbido. Sentire la voce di Jones graffiare nel microfono, così riconoscibile, affidabile e liquida è come una carezza su una spalla nuda, o come il caffè alla mattina, quello che però non ti brucia la lingua. E da qui inizia il viaggio dei gallesi che ci accompagna lungo tutta la discografia al completo, in piena attitude con quella che è l’urgenza di ricordare al pubblico che gli Stereophonics sono una band di lungo corso e che non vogliono scontentare i fan, dai più recenti ai più longevi. Da Keep the Village Alive a Language. Sex. Violence. Other? a Just enough education to perform a Scream above the sound da Graffiti on the Train fino a You Gotta Go There to Come Back hanno suonato praticamente qualsiasi cosa.
E dal groove rilassato e dalla museiana memoria Superman le chitarre partono sparate a mille, sostenute da volumi ed effettoni che non si contano, ma tutto sempre in perfetto equilibrio tra una natura intima e e minimale, galleggiante tra un rock americano e melodie pop di stampo brit. Canzoni che restano immutate e le memorabili ballate britpop come All In One Night, I Wanna Get lost with you, Indian Summer, Maybe Tomorrow, Graffiti on The Train e la inflazionatissima Have a Nice Day che i più ormai ricorderanno con l’immagine inquietante del consultant di Allianz che ti deve vendere la polizza a tutti i costi. E così tutto il Lorenzini si colora di luci degli cellulari e sorrisi innamorati. Senti proprio il bisogno di attaccarti a qulcuno e dondolare al ritmo cadenzato della chitarra mordida e vellutata di Jones, non c’è alcun dubbio. La corsa indietro nel tempo si spinge fino agli esordi con a A Thousand Trees e le sue lunghissime ed infinite schitarrate e la fascinosa e dalla natura profondamente brit dell’esercizio di Traffic ci accompagna fino a torbide avventure, come nel caso di Hungover for you, lasciandoci sciogliere nella malinconia più ammorbante con Mr Writer, capace però di sorprenderci con momenti di insana e vigorosa acidità sonora, con effetti, distorsioni e riverberi, mai too much, mai eccessivi. La voce di Jones si apre e si chiude su piani narrativi malinconici e melensi a volte, ravvivati dal brio delle mature chitarre muscolari sue e di Zindani che scorporano i brani dandogli sfumature e livelli diversi e sempre chiudendo con soli infiniti, godibili eppure sempre così prevedibili. Continuiamo a liquefarci nello spleen con la recente Fly Like an Eagle, brano dalla piena matrice stereophonicsiana fino a Sunny che si apre su melliflue note di piano per poi virare su una vigorosa chitarra anche se non mancano di comparire sassofoni e trombe qua e là durante la serata.
L’encore è affidato a due momenti importanti della produzione della band, The Bartender and the Thief e Dakota e annulliamo le distanze tra palco e parterre in pieno bombardamento di sostanze neurochimiche che ci fanno sentire veramente in una bolla rosa e fluttuante, cantando oh oh oh.
Un’esibizione da manuale, senza sorprese, un back catalogue di canzoni dalla natura essenziale, sospese nel tempo e nello spazio, l’ottimismo degli Stereophonics ci piace e ci rassicura, ci distende e ci fa sentire presi per mano. Tutto è dove deve essere: è un ordine naturale e strutturato dove ogni elemento si trova al suo posto. Tutto sapientemente fuso, la fluidità delle strutture sonore, le chitarre rigeneranti, la forza del songwriting, le melodie limpide e ariose e tutto è ricezione e amore incondizionato.
Se vi piace la materia sonora informe e rozza e la confusione indefinita non ascoltate Jones e soci. Se vi piace la musica di nicchia, la sperimentazione, i voli pindarici andatevene.
Gli Stereophonics credono in un’idea di musica collettiva e per tutti, come patrimonio culturale condiviso, democratico ed accessibile, riconoscibile e leale, equilibrato ed autentico. La riluttanza a innovare non li penalizza ma li inchioda ancora di più a quella cifra stilistica monolitica e assolutamente rassicurante e rasserenante. Dove c’è scritto che dobbiamo sempre soffrire per forza? Accogliamo l’amore affidabile degli Stereophonics …just go on and on…
Clicca qui per vedere le foto degli STEREOPHONICS in concerto a Milano (o sfoglia la gallery qui sotto)
STEREOPHONICS – La scaletta del concerto di Milano
Bust This Town
Superman
I Wanna Get Lost With You
Geronimo
Maybe Tomorrow
Have a Nice Day
Hurry Up and Wait
Indian Summer
Don’t Let the Devil Take Another Day
Graffiti on the Train
All In One Night
A Thousand Trees
Local Boy
Traffic
Mr and Mrs Smith
Fly Like an Eagle
Mr Writer
Hungover for you
White Lies – Sunny
Just Looking
Make Friends With the Morning
Handbags and Gladrags
C’est la vie
Encore
The Bartender and the Thief
Dakota
GIACOMO
11/02/2020 at 11:47
Come al solito, la rassegna di Serena Lotti è impeccabile. Affascina con la sua prosa, si immerge e ci immerge in un racconto dettagliato, vivo, sincero.
Quella che ci restituisce – riga dopo riga – non è una mera descrizione degli eventi. Non è una finestra che affaccia su ciò che vede e ci descrive. Quando la penna è nelle sue mani, al lettore appare immediata una via di accesso decorata da un lungo red carpet che porta dritto sul palco, nella mente dell’artista, a metà strada tra l’esibizione e la percezione della stessa.
Leggere una pagina di Serena Lotti è un lenta ipnosi della mente che d’un tratto si risveglia tra il pubblico entusiasta, con le mani al cielo. Ed è subito Rock ‘n’ Roll!
Serena Lotti
20/02/2020 at 14:54
Kurt Cobain diceva che un concerto è la forma più primordiale possibile di scambio di energia con altri…se sono riuscita a fare passare questa energia anche solo per l’1% varrà sempre la pena accalcarsi sotto palco, perdersi nella musica e poi non dormire la notte per scriverlo…
Grazie Giacomo.