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Reportage Live

Il progressismo degli ENTER SHIKARI e la gentilezza del metalcore

Articolo di Serena Lotti | Foto di Davide Merli

Gli Enter Shikari sono arrivati a Milano per raccontarci la favola black di The Spark il quinto album in studio uscito già nel lontano 2017 e anticipato dai singoli Live Outside, Rabble Rouser e Undercover Agents, oltre che per sollazzarci con un bel back in the days vista la setlist dei live recenti, un ritorno alle origini tanto atteso e desiderato dai fan italiani, soprattutto perchè il nuovo album si discosta nettamente in termini di sonorità, tematiche concettuali e identità musicale.
Parlare di cambiamento e di evoluzione quando si parla degli Enter Shikari è boring. E’ difficile parlare di percorsi nuovi ed inesplorati all’alba di un loro nuovo lavoro quando da sempre questa band inglese non è mai stata classificata in un macrogruppo musicale, dentro uno stile preciso o è mai stata vista rincorrere sonorità dentro le quali idenficarsi in modo netto.

Gli Enter Shikari hanno da sempre rivoluzionato il modo di ascoltare, suonare, interpretare e proporre il genere metal. Già protagonista di una sua evoluzione naturale a partire da un ventennio fa, il genere ha iniziato a vedere una serie di contaminazioni digitali ed elettroniche che l’hanno fatto evolvere verso altri nuovi sotto generi e categorizzazioni sonore che più generalmente viene riconosciuto ufficialmente nel calderone dell’electronicore. Gli Enter Shikari, nonostante la loro giovane età e già dalla loro formazione nel 2003 si sono proposti come un gruppo apripista, degli sterminatori della classificazione di genere musicale, pioneri di virate importanti e padri del bellissimo Take to the Skies uno dei più stupefacenti ed avanguardisti debutti della storia della musica metal hardcore.

Da sempre la band mescola tutto il mescolabile posizionando tutto su un equilibrio fragilissimo che anche i più sensibili musicalmente faticano a comprendere. Un mashup delirante ma strutturato e sempre coerente di  post-hardcore, metal, elettronica, pop, synth, tastiere vintage, harsh vocali e di tutto questo il loro contrario.

Oltre alla forte connotazione sperimentale che li contraddistingue, gli Enter Shikari rappresentano sicuramente un esempio di band libera dalle logiche imprenditoriali comuni spesso necessarie per decretare il successo di un progetto artistico attraverso campagne di marketing fitting e ben progettate.
Non loro. I loro meet & greet gratuiti, la scelta di sottrarsi alle logiche di mercato delle major, il progressismo denso che traspare nettamente dai testi, l’ispirazione presa da Rousseau, Schopenhauer e Kafka, il retrofuturismo e tutte le più arzigogolate velleità sperimentali possibili. Ecco chi sono gli Enter Shikari.

Puntuali alla maniera british arrivano sul palco di un Alcatraz non strapieno di gente ma sicuramente saturo di positive vibrations e grandi aspettative. Stiamo parlando di gente non capitata a caso in Via Valtellina. Ricettiva, attenta, emotiva. E piena di birra.
Arrivano a miccia. Immancabile il custom controller vintaggione a forma di lavandino che è anche la copertina dell’album. Grossi parallelepipedi luminosi a fare da scenario post moderno. Rou Reynolds si presenta vestito come Don Johnson in Miami Vice, il capello estremo e aerodinamico, la calza verde smeraldo, scarpa con un filo di plateau.
Accolti calorosamente ci scuotono subito con un intro elettronico di synth e chitarre distorte.

Attaccano subito con The Spark e The Sights, pezzi dell’ultimo album, e ci accorgiamo immediatamente quando suoni, ritmi e intenzioni siano decisamente più blande, quasi pop, e ripulite da quella brutalità alla quale la band ci aveva abituato. Questo non impedisce comunque al pubblico di scaternarsi tra poghi, cori collettivi e saltoni. Uno sguardo laconico a  Take to the Skies e A Flash Flood of Colour con la coivolgente Labyrinth e Arguing With Thermometers dall’anima techno e drum’n’bass.
Una virata blues con Rabble Rouser fino alla trasmutazione elettro-dance che fa ribaltare tutto l’Alcatraz e siamo pronti per Common Dreads, con il lentone sintetico Gap In The Fence che sopra tutti ammorbisce l’aria e la rende meno greve.
Torniamo su pezzoni come Gandhi e Mothership alla mercè di synth pesantissimi e riffoni di chitarra belli densi e ci solleviamo un pò con le dilatazioni melodiche e i deliri possenti, mitigati a momenti da inquietanti sussurri e elettricità assordante di altri due brani di Sparks, la poetica Airfield e Undercover Agents in un continuum mesh up di brani, sonorità nuovissime, velleità sperimentali ma sempre nel rispetto di quello che è il background stilistico della band. E’ il pubblico spesso a ricordarcelo con momenti di headbanging tra le prime file e qualche scarrellato che riesce a farsi sollevare per fare un accenno di crowdsurfing alla buona.

Per par condicio andiamo a rallentare la nostra corsa sui beat elettronici di The Last Garrison e Anaesthetic Reso Remix (remix di Anesthetist di Alex Melia AKA Reso) tratte da The Mindsweep e andiamo in chiusura quello che è già diventato un pezzo da novanta, Take My Country Back che ci riporta sulla nuova stazione orbitante degli Enter Shikari, fatta di sonorità synth-pop morbide, tastiere vintage e suoni appealling ma a tratti sporcate da una verve punkettona anche un pò trucida, sempre capace di farsi interprete di un messaggio importante e necessario “Don’t wanna take my country back / I wanna take my country forward. We’ve really gone and fucked it this time”.
Il live è stato un mesh up di vecchio e nuovo, un’altalena che spingeva da una parte verso intimismi delicati, melodie morbide e la consapevolezza della maturazione, dall’altra verso la brutalità e la dissacrante potenza di una band che nasce con una forte connotazione modern metal, con tutto il suo corollario di ansia, grevità e forza bruta.
Gli Enter Shikari si sono imbarcati in un’impresa tecnologica fighissima, dentro surround quadrifonici che dal vivo non riescono ad essere così sofisticati come dall’ascolto in cuffia e rischiando di virare con troppa forza dentro territori veramente troppo nuovi e mutuare fin troppo dalla trance-techno. Sono comunque riusciti egregiamente a far cappottare il pubblico dell’Alcatraz con suoni virulenti, messaggi socialmente forti, progressisti e rivoluzionari. A dire il vero, siamo tutti soddisfatti e sudati. Il live è finito. Dopo un encore potententissimo ed emotivamente coinvolgente si spengono le luci e si aprono le porte. Il pubblico pagante ordinato e silenzioso che vedo uscire dalla venue milanese, dopo un concerto metal hardcore, è educato, preso bene e sorridente. Nessun rutto, nessuno spintone, niente svomitate per terra. Escono tutti il fila, abbracciati e sbaciucchiati. Voi dove lo avete mai visto?

Clicca qui per vedere le foto di Enter Shikari a Milano (o sfoglia la fotogallery qui sotto).

ENTER SHIKARI: la scaletta del concerto di Milano

The Spark
The Sights
Labyrinth
Arguing With Thermometers
Rabble Trousers
Hectic
Gap In The Fence
Shinrin Yoku
The Revolt Of The Atoms
Price On Ryan’s Head
Gandhi Mate, Gandhi
Mothership
Insomnia
Havoc B
Airfield
Undercover Agents
No Sleep
Stop The Clocks
Quick-Fire
Sorry You’re Not a Winner
The Last Garrison
Meltdown
Anaesthetic Reso Remix
Take My Country Back
Juggernauts
Live Outside

Written By

Milanese, soffro di disordini musicali e morbosità compulsiva verso qualsiasi forma artistica. Cerco insieme il contrasto e il suo opposto e sono attratta da tutto quello che ha in se follia e inquietudine. Incredibilmente entusiasta della vita, con quell’attitudine schizofrenica che mi contraddistingue, amo le persone, ascoltare storie e cercare la via verso l’infinito, ma senza esagerare. In fondo un grande uomo una volta ha detto “Ognuno ha l’infinito che si merita”.

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