Foto di Matteo Scalet | Articolo di Costanza Garavelli
È a Trento la prima data del tour Italiano di Xavier Rudd 2022, nel quale il cantautore australiano, classe ‘78, presenta il suo ultimo e decimo album “Jan Juc Moon”, uscito quest’anno. In attività dal 2004 con il suo primo album “Solace”, Xavier non usciva con una nuova creazione dal 2018 con “Storm Boy”, dove il cantante proponeva una fotografia musicale della sua vita. In questi ultimi anni di pausa però, anche complice la pandemia, il cantante si è dato da fare e il prodotto promette alti picchi emozionali.
L’Auditorium Santa Chiara, alle 20.30 è già gremito. Ad accogliere il pubblico, sul palco c’è l’amico e collega di Xavier, Bobby Alu. Ukulele tra le mani, camicia hawaiana rossa, occhi chiusi e note delicate, Bobby ha la ricetta giusta per accompagnarci in quella che sarà una serata dal sapore esotico. Canta ondeggiando leggero, trasportato, trasognato, come fosse di fronte all’oceano, invece che di fronte a noi.
Sono circa le 21.15, quando Bobby saluta il pubblico e la sala si spegne. In background si accende un’enorme aquila dai colori notturni e una luna. Xavier è ancora nel buio, si può individuarne la silhouette dietro la sua inconfondibile batteria ornata da due enormi didgeridoo. I suoni della natura e le vibrazioni degli enormi strumenti di legno tramutano ben presto l’auditorium in una notte nella foresta pluviale. È l’intro di “I am Eagle” il brano di apertura del nuovo album. Si accende qualche luce, e compare il primo sguardo del cantante al suo pubblico. Sorride e, muovendo appena le labbra, scioglie l’anima a tutti con le prime strofe della canzone. Un ventaglio potentissimo di suoni e vibrazioni tumultuosi e giochi di luce arcobaleno si susseguono in questa emozionante apertura.


Il poliedrico one-man-band non rinuncia ai suoi tratti distintivi, è ovviamente scalzo e parla di natura, libertà e connessione tra gli esseri viventi, mettendo in scena sin dal primo istante le armonie e la bellezza della sua amata terra d’origine. Le inflessioni folk e blues non sono sufficienti a inquadrarlo in un unico genere, i richiami spirituali e la musicalità espressamente contaminata dai suoni molto terreni del folklore aborigeno, lo rendono inconfondibile. Il palco è costellato di tutti i suoi strumenti, in mezzo ai quali si muove, tra un pezzo e l’altro riuscendo a cambiare completamente mood, seppur mantenendo il fil rouge del suo animo selvaggio. Al secondo pezzo “Full Circle”, tratto invece dal suo album “Spirit Bird” del 2012, è seduto su uno sgabello, chitarra in mano, espressione aperta verso chi lo ascolta e gli occhi pieni di genuina meraviglia. Ci fa entrare nel vivo dell’album, proponendo le nuove sonorità dei pezzi, che oscillano tra la potenza dei suoi didgeridoo e le percussioni in chiave reggae con contaminazioni quasi dance, e momenti di grande raccoglimento, con i suoni delicati delle sue chitarre, un banjo e una sliding guitar. Alterna sapientemente l’atmosfera, passando da “Sliding Down a Rainbow” nel quale riesce a rendere un sound quasi elettronico con strumenti che di elettronico hanno ben poco e sfidando chiunque a provare a non ballare, a “We Deserve To Dream” e qui, il gioco si fa duro per i sensibili. “And the courage could be summoned to bring about some change” canta. E sembra di essere seduti con un vecchio amico al quale confidare i tuoi turbamenti, tanto lui la frase giusta da dirti ce l’ha. Ce l’ha perché i suoi testi sono di una semplicità disarmante, senza essere mai banali. Di fatto ti sbatte in faccia delle verità così elementari che tanti di noi non sono più abituati a vedere. L’amore e la cura per la terra, per le piccole cose, la necessità di ascoltarsi ed ascoltare per ritrovare il cammino tra le difficoltà. L’importanza della collaborazione, della validazione di sé attraverso la valorizzazione dell’altro. Oppure messaggi di impegno etico per quanto riguarda la disastrosa situazione ambientale che stiamo attraversando, con testi come quello di “Messages”.


Nonostante l’importanza e l’impegno sociale di cui i suoi testi sono pregni, non smette di far ballare ed è sulle note di “Ball and Chain” che il pubblico di stare seduto non ne può più e si riversa sotto il palco, saltando e lasciandosi trascinare dal ritmo, sotto lo sguardo di approvazione del cantante, il cui sorriso si fa più ampio e acceso. Ed è sempre su questo brano che fa il suo secondo ingresso Bobby Alu, occhi negli occhi con Xavier, canta con lui questo ed i seguenti due pezzi “Come Let Go” e “Rainbow Serpent” tratti rispettivamente dagli album “White Moth” (2007) e “Nanna” (2015). La complicità e l’affetto tra i due è chiaro come le note che suonano e così pure quanto insieme si stiano divertendo. “Thanks to my beautiful brother” e lo saluta così e si ferma a parlare un po’ con noi. Ci racconta, con la luce negli occhi delle origini del suo paese natìo, della cultura aborigena e di come sia stata storicamente repressa e combattuta. Cultura che scorre nei suoi testi, nei suoi suoni e nelle sue vene (il padre ha infatti origini aborigene) e alla quale lui si sente molto legato e profondamente coinvolto. È accorato il suo racconto, come la sua presenza sul palco, come la sua musica e la risposta del pubblico è di grande vicinanza. Le transenne che lo dividono dalla platea diventano inesistenti, rendendo lo scambio profondo ed intimo. Ed in questo senso di intimità che intona “Jan Juc Moon”, brano a cui l’album deve il titolo, nome della cittadina australiana in cui è cresciuto e soprattutto ninna nanna che, nella traccia registrata, reca nell’intro il battito del cuore di suo figlio.
Ci guarda tutti negli occhi, mentre canta, mentre ci racconta qualcosa di sé e la commozione è spontanea. E continua a sorprendere tutti, riprendendo in mano il ritmo, senza mai smettere di far ancheggiare il suo pubblico che intona con lui il ritornello di “Spirit Bird” tratto dall’omonimo album del 2012, prendendo le sembianze di un coro di cui lui dirige l’emotività. A “Lioness Eyes” è di nuovo sul suo trono di percussioni e fiati e mentre riversa i suoi polmoni negli enormi strumenti di legno, torna la notte, il buio, i giochi di luce che lo fanno sembrare sospeso nella stanza e in background l’enorme testa di un leone in un cielo di stelle. I suoni primordiali richiamano ancora una volta l’essenza della terra e del cielo, dei grandi spazi, degli oceani e delle foreste, che di nuovo, si trovano racchiuse qui, in una sala nel cuore della cittadina. Siamo alla chiusura, è più di un’ora e mezzo che Xavier dà prova della sua resistenza fisica, con questa performance incredibile ed è tempo di “Follow the Sun”, il suo pezzo più famoso che l’ha reso celebre in tutto il mondo, brano di punta dell’album “Spirit Bird”. Non una singola bocca resta chiusa, non un singolo cuore resta freddo. Ride Xavier, e l’affetto che esprime ha un che di curativo, scioglie ogni particella di ansia e di bruttura, lasciando un tepore terapeutico nel petto di tutti. Chiude così, ma il rientro per l’encore fa rimbombare tutta la sala. Canta gli ultimi tre pezzi con la stessa energia dell’inizio e ci saluta con “Magic”, un ultimo pezzo dell’album protagonista della serata in cui ci ricorda che la magia è tutto intorno a noi. Temporeggia sul palco, negli scrosci di applausi e sembra non avere nessuna voglia di lasciare andare la serata, ci ringrazia, ci parla ancora un po’ prima di andarsene. Siamo noi a doverlo ringraziare, però: per la sua musica, per la sua spontaneità, perché con la sua arte cerca il meglio di noi e lo tira fuori.
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XAVIER RUDD – la scaletta del concerto di Trento
I Am Eagle
Full Circle
Stoney Creek
Energy Song
Sliding Down a Rainbow
We Deserve to Dream
Storm Boy
Messages / Guku
Ball and Chain (with Bobby Alu)
Come Let Go (with Bobby Alu)
Rainbow Serpent (with Bobby Alu)
Jan Juc Moon
Great Divine
Spirit Bird
Lioness Eye
Flag (Xavier Rudd & The United Nations song)
Follow the Sun
Encore:
Let Me Be
Breeze (Xavier Rudd & Izintaba cover)
Magic

