Articolo di Serena Lotti | Foto di Giulia Manfieri
Lo ammettiamo. Noi di Rockon amiamo profondamente Frank Carter & the Rattlesnakes. Ma vi confidiamo che ieri sera eravamo in preda ad una certa ansia. Va da sè che era lunedì e che col weekend avevamo dato già tutto, quindi la paura di non essere performanti era alta. Perché quando vai ad un live di Frank Carter devi essere allenato, riposato e non devi assolutamente avere la pressione bassa.
Insomma, non avevamo i nostri parametri fisici alla mano ma sentivamo una certa ansia da prestazione poco prima dell’uscita del gruppo hardcore punk inglese più assurdo sulla piazza musicale europea.
Ma prima di entrare in Santeria facciamo un velocissimo back in the days. Carter aveva già fatto parlare di se fin dai tempi in cui era frontman dei Gallows e dei Pure Love e, dal 2015 quando si è preso in casa quei pazzi dei Rattlesnakes con cui ha firmato 3 album, si è conquistato in definitiva un posto nell’olimpo dei punkettoni più trucidi sul mercato.
Quindi dopo Blossom e Modern Ruin i Rattlesnakes sono arrivati in Italia per farci saltare per aria con un assaggio di End of Suffering, terzo disco in uscita a maggio 2019 e per invitarci al party più delirante e cazzuto al quale siamo mai stati. Entriamo in una Santeria piena quel che basta, ci siamo persi l’opening dei King Nun ma a quanto pare deve essere stato propedeutico. La gente è già sudata, le birre sono alla fine del bicchiere, giacche e felponi arrotolati in vita. Le fotografe trovano il pit montato e questo, che una rarità in Santeria, è significativo di quanto starà per accadere a breve. Il loro cervello ha già assimilato il messaggio subliminale. Be strong girls. Si aggrovigliano quanto più possibile al corpo gli obiettivi e le macchine fotografiche e se ne vanno in missione. Resto sola con tutta la loro roba addosso, zaini, maglie, birre a metà e le loro speranze mal riposte.
Frank e i Rattlesnakes si lanciano sul palco senza avviso. Il nostro occhio li mette a fuoco solo dopo qualche secondo. Frank è un meraviglioso pugno in faccia: in tuta rossa, canotta a rete e sandalozzi è il più cool in via Toscana stasera.
Attaccano Crowbar, il singolo estratto dal nuovo album, che sparato in apertura si manifesta subito come una chiara presa di posizione. Un’esplorazione forsennata dentro forme sonore nuove ed insolite. Le scudisciate alle quali i fan di Frank e i Rattlesnakes sono abituati sono le solite, sanguinolente e virulente, ma sembrano più strutturate, come se il viaggio delirante della produzione musicale della band inglese fosse arrivato ad una stazione di cambio. O forse no. Perché se imprechi It’s the death of happiness, go and get the crowbar! qualcosa deve essere andato maledettamente storto. Ma non erano in clima End of Suffering ovvero “la fine della sofferenza”? È il caso di aspettare e vedere cosa succede. Il pubblico inizia a sezionarsi in un modo geometricamente perfetto. I pogatori seriali in mezzo, i bevitori di birra nelle retrovie, gli ascoltatori con spirito critico a lato, rigorosamente con la mano sul mento, i vari portatori sani di headbanging chiaramente sotto palco.
È il momento delle chitarre seghettate e scintillanti di Wild Flowers in cui il messaggio d’amore di Carter non può che esplodere nel modo che lui conosce meglio: quello brutale ed esplosivo e fino qui tutto bene. Arriviamo dritti su Trouble, dentro il delirio mentale di Carter, che dopo averci urlato nelle orecchie Tyrant Lizard King, pezzo nato con la collaborazione di Tom Morello dei Rage Against the Machine sembra rallentare un attimo in chiusura. E’ un attimo. Lo vediamo lanciarsi sulla gente ed eseguire una perfetta manovra di headstand sul pubblico pagante. A testa in giù non smette di cantare e urlare fino a quando non ci regala un altro momento di crowdsurfing nelle più svariate posizioni possibili sfidando le leggi della fisica, quasi facendo invidia a Katelyn Ohashi. Una veloce ed immancabile passeggiata in testa a quella accozzaglia umana variopinta e viene riportato on the stage per una Vampires acidissima e cattiva. La chitarra si infiamma mentre Carter ci filma, si fa selfie e salta sulle casse come un gatto indemoniato. Andiamo avanti tra deliri collettivi e poghi incessanti sulle rasoiate senza concessioni di Fangs e Acid Veins.
Ma è il momento di fermarsi. Carter ha un momento di introspezione catartica veramente commovente. I fan sanno che da anni soffre di disturbi mentali che spesso lo hanno tenuto fuori dalle scene, costringendolo anche in tempi recenti ad annullare tour e concerti.
È quindi il momento di parlarci di Anxiety e di mutuare quel messaggio di sofferenza dai recenti fatti che hanno visto andarsene molti artisti. Ed è qui che ci spiega il significato profondo che sta alla base di End of Suffering: il raggiungimento dell’illuminazione attraverso il dolore. La speranza non deve morire mai. “L’ansia è un problema oscuro che vive nel profondo del tuo cuore e della tua mente. Sto parlando a voi, ma soprattutto sto parlando con gli uomini. Siamo condizionati ad essere guerrieri..sapete che il traguardo di un guerriero è di morire? Non moriremo più. Voglio che ogni singola persona qui viva una lunga vita fottuta per i loro genitori, per i loro partner, per i loro figli, le loro famiglie e, soprattutto, per se stessi. Se stai lottando per favore parla con qualcuno”
Ma con la musica ce lo spiega meglio. Carter trascendendo da un genere all’altro, sempre con auto ironia e quella adorabile verve triviale e animalesca, in bilico tra l’amore per l’hardcore più truce e un pop cupo e dark, è in grado di devastarci completamente di gioia mandando messaggi chiari e dannatamente eloquenti.
Ma siamo su una giostra ossessiva, siamo in piena guerrilla e dobbiamo alzare il culo. Basta parlare. Carter si mette a dettare committment netti al pubblico. Non sappiamo bene quello che sta per accadere, ma lui ci da istruzioni chiare. Safety first come prima cosa. E via le mani dai culi delle tipe please. È il momento del circle pit. Lo chiede. Lo ottiene. Le ragazze salgono in testa alla gente e tutti iniziano a girare intorno al mixer come pazzi forsennati mentre a lato gli impavidi delle prime file restano a fare headbanging con qualche sbarellato che accenna movimenti di thrust. Le nostre fotografe dentro questo girone dantesco rischiano di essere trascinate dal gorgo umano ma pronte a morire subito per lo scatto perfetto. E se non è fotografia d’assalto questa, spiegatemi cosa lo è.
Andiamo in chiusura con classiconi come la ballad Lullaby, una ninna nanna per la figlia che strizza l’occhio al sound dei Queen of The Stone Age, Devil Inside Me e l’encore con I Hate You, con tutto il pubblico a cantare a squarciagola.
Recupero le mie Fallaci. Il live è finito, usciamo tramortite ma siamo sopravvissute. Siamo sudate e stanche. Ci facciamo un selfie per chiudere le nostre instagram stories ma non siamo contente e non perché non ci stiano bene i capelli. Rifacciamo con l’effetto boomerang dell’iPhone. Eccolo lì il selfie perfetto. Il loop malato che cercavamo di di materializzare in un’immagine. Quello che abbiamo definito #effettocarter. Ed il nostro è il primo hashtag di questa storia.
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FRANK CARTER: la scaletta del concerto di Milano
Crowbar
Wild Flowers
Tyrant Lizard King
Trouble
Vampires
Fangs
Heartbreaker
Acid Veins
Anxiety
Snake Eyes
Jackals
Lullaby
Devil Inside Me
Kitty Sucker
I Hate You