Intervista di Marzia Picciano
Dura chiedere cosa vuol dire fare musica folk oggi, in Italia. Pochissime figure, artisti a 360 gradi, hanno la capacità di spiegarlo. Uno di questi è Davide Van De Sfroos, nome d’arte per Davide Bernasconi, monzese cresciuto a Mezzegra sul Lago di Como, realtà che ha portato con il suo dialetto, il laghee, in giro per le principali piazze, stadi, teatri nazionali e persino sul palco dell’Ariston ormai nel 2011. Negli uffici BMG di Milano si respira aria frizzante: domani 13 ottobre verrà pubblicato il suo nono album in studio, Manoglia, ovvero la magnolia, il cui nome i vecchi, ci dice l’artista, “storpiano” nel proprio dialetto: un albero vero, un disco che “sa di legno”, di radici, di ritorno. Eppure Davide e’ rilassato.
Quello che ci ha detto con questo lavoro, che RockOn ha ascoltato in anteprima, è la chiave per rispondere alla nostra domanda. Ci serve ora un esperto del luogo per farci guidare. Manoglia è la risposta che non ti aspetti, o come dice lui: “il disco che non c’era”, a una domanda trita e ritrita. Perchè il folk, oggi, o meglio ora, é fuori dalle solite strade battute, o meglio, è dentro di loro, dentro queste solite cose, sotto la scorza. Cercare il canto del popolo in Italia e’ un’impresa donchisciottesca, con il rischio di creare una sorta di annuario antropologico e perdere il nocciolo della questione. Ecco invece Davide Van De Sfroos, con 30 anni di carriera tra dischi, libri e teatro ci dice che il folk e’ dentro l’albero di magnolia del suo paese, che ha resistito alle guerre, carestie e anche pandemie. Ma ci è voluto un bel viaggio per arrivarci – sempre e comunque da uomo libero, come il folk vuole.
“E’ stato un viaggio abbastanza lungo, sempre per strada, e sempre alla ricerca di qualcosa” ci spiega Davide “non era il lavoro del cantante pop, non era il lavoro sul palco della star mainstream e quindi tutto diventava una specie di Jack Kerouac, di On The Road costante.. che poi a volte la cosidetta road non era proprio la Route 66 o l’Interstate USA, ma semplicemente la Statale Regina o l’autostrada che porta fino a Rapallo, le strade di casa mia o quelle della Barbagia”. Un viaggio, appunto, di ritorno a se stesso: “tutto veniva catturato, portato a casa, digerito scritto e poi anche cantato”.


Davide Van De Sfroos di viaggi, o meglio, un viaggione lo ha fatto, disco dopo disco. Partendo da Brèva e Tivàn, E sémm partíi, Pica!, fino a Yanez, Goga e Magoga, ha delineato un percorso non scontato per il mondo discografico, verso una maturità di chi si è e chi si rappresenta oggi. Parlando del luogo, la sia città e di quelli che se ne andavano, fisicamente ma anche di testa: illuminando come su un palco, man mano, le voci del coro. E poi se’ stessi. “Yanez conteneva anche le prime schegge di necessità di autoanalisi, e di raccontare altro, di fare outing, parlare di Long John Xanax, parlare delle proprie ombre e dei propri demoni”. Una riflessione creativa di quasi 7 anni, sfociata poi nella necessità ancora piu impellente di rimettere in campo con forza il discorso lasciato indietro. “E’ stato un momento in cui sono successe tante cose, si sono fatti tanti concerti, ma sono successe tante cose. Quindi Maader Folk (il disco del 2021,ndr) ha avuto un tempo di avere al suo interno una serie di canzoni rimaste a fermentare per anni. Siamo tornati a parlar delle cose dense. Della terra. Della Madre Terra, delle persone, e dei luoghi, e via dicendo”.
Come si arriva allora a Manoglia, un album a sorpresa, fuori dalle solite scadenze discografiche? Un lavoro che arriva a chi lo ascolta così, di getto, facendo saltare le nostre convinzioni sul genere?
“Manoglia è il non disco. E la canzone che non c’e’. La canzone che uno non avrebbe mai pensato di cantare fuori dalla propria porta, le cose intime, le pagine di quaderno che ti porti nello zaino, i ricordi di famiglia, il Giuvanonn e la Zia Nora (entrambe canzoni contenute nel disco)…”. Entrare nel disco è entrare una comunità di persone che ci parla molto più di noi, o di Davide, di quanto non sembri. E’ “un disco fatto di carne e ossa, testa e psiche ma anche di tutte luci e le ombre”, ci spiega. Non pensava a un lavoro musicale: temi cosi personali erano più adatti a un libro, invece si è accorto che avevano una struttura e una fraganza tutta loro. Tutte portavano a un comun denominatore che era proprio quello della foglia della manoglia, il gigantesco albero che è ancora li fuori dove Davide è cresciuto fuori dalla balera e dal circolo dove giocavano a carte o a bocce. “E’ e stata il totem di tutto il paese. Tutto li avveniva”. E’ un totem anche oggi. “Quella manoglia ha visto la pace, la guerra, la morte, le feste danzanti ha vusti i primi momenti di psichedelia tutto quanto. Ma quando sono potuto uscire di casa (dopo la fine della pandemia, ndr) sono andato li , a 600 metri da casa, e la natura si era riappropriata di tutto….la manoglia era li, e io ero rimasto con foglie di magnolia in mano, che erano come ricordi perduti dall albero che pero noi continuavamo a raccogliere.” Sospira: “il passato non potrà tornare, ma almeno spero che quel luogo possa essere recuperato”.


Nella parabola di Van De Sfroos, tutto nasce, cresce, profuma e poi si stacca e ritorna nel vento, come le foglie del pezzo di chiusura (Foglie al vento), con il suo finale ambient. “La copertina stessa dell’album dimostra che sei dentro un totem costante di cose vive e naturali e anche molto simboliche”, che sono si magnolia, ma anche falchi, giovanoni, e zie. Ci stanno.
E’ un lavoro acustico, un’indagine dietro la psiche della persona (se ne parla ne La Ballata Del Mascheraio e in Crisalide). Vuol dire anche indagare su una canzone senza andare a cercarla (La Canzone Che Non C’e’). Si tratta di osservare ed osservarsi. Una metodologia applicata dal Bernasconi da mattino “con le persone e gli eroi di ogni giorno che non conosciamo, che portano i rgaazzi a prendere la corriera” o “stando in giro quasi un’ora a guardare cosa facevano queste anime”, osservando “queste piccole luci che ingoiavano passanti infreddoliti un pò di bruma e sembrano dire: Ankainkoo – anche oggi – mi sveglio dal sonno e devo mettermi uno scafrando da lavoro ed entrare nella giornata”.
Eppure non e’ un sapore amaro da terra di periferia quello che ci lascia, ma grande speranza. El Mekanik, il momento di psichedelia e una delle vere perle dell’album è una fugace ma carica fotografia di un uomo a cui il mondo non ha fatto favori ma che comunque, per citare Zerocalcare, non l’ha reso cattivo; anzi è diventato esso stesso parabola del rottamatore che instancaboilmente ripara, un ‘guaritore ferito’: “l’ho scritto perche è capitato anche a me di aver avuto momenti di demoni di depressioni, e in quel momento diventavo molto più efficace nel guarire, nel dare una mano a persone che soffrivano di cose analoghe”. Ma non c’e’ neanche la pretesa di un canto guaritore. “Perfino Zia Nora, che parla di qualcuno che non c’e’ più, parla di un allegra nostalgia” Bernasconi è positivo: “bisogna riscoprire la gratitudine di aver conosciuto certe persone e di aver potuto vivere determinate epoche. Certe cose le rimpiangi, ma i rimpianti lasciamoli ai ragazzi di domani”.


Chi è il cantante folk oggi allora ci è chiaro: è Davide Van De Sfroos, all’arrivo di un peregrinare che lo ha fatto girare intorno al totem della sua esistenza, una maestosa magnolia, e che lo ha portato a parlare di se. L’uomo sulla strada è l’essenza, e trascende il genere, anzi diventa un abilitatore. Come sarà mettere insieme tutte queste emozioni al Teatro degli Arcimboldi a Milano il prossimo 29 febbraio 2024? “Io credo che li il gioco sara proprio mettere in azione il disco live, come fatto per Maader Folk. Sono 11 brani, la forza che c’è dal teatro, li puoi sussurare, non hai bisogno di arrangiare in modo particolarmente diverso”. Un evento unico per raccontare il disco, e non solo. “Sarà bellissimo vedere come suonano nel momento in cui tutti sono seduti, in presa diretta, e come avviene il mix con altri alcuni pezzi del passato che erano rimasti nascosti nel tempo e che e il momento di tirare fuori”.
Ma come si pone questo sforzo di grande sincerita, quasi rivoluzionario nel fare musica, con il resto della musica? C’è di mezzo la libertà di un cantante folk, di vivere in un universo un pò spostato dove non tutti passano e “che mi tiene protetto e tranquillo”, anche di promuovere, come fatto dal suo amico Guccini, un disco che non sarà in streaming: la sua musica che Van De Sfroos ammette, non è quella che le piattaforme ora sono orientate a promuovere (Manoglia uscirà solo in versione vinile, vinile colorato in edizione limitata e numerata, versione cd e download). Nella libertà di questa condizione si può essere onnivori, ascoltare tutto senza storcere il naso a priori. Anche nella trap e hip hop “ci sono artisti veri e propri, ci sono simulatori e ci sono delle persone che si stanno trascinando addosso dei pesi che magari non li riguardano ancora.. Non mi disturba la musica di oggi, non ho mai odiato, per dire, i Maneskin”. Per uno come lui, che ha iniziato con Bowie e Zero, l’ascolto si apre a chi innova e contamina, Verdena, Salmo, Rammstein, ma anche il metal estremo norvegese e il jazz; quando riesce anche la classica e anche il punk e musica etnica, “altrimenti non avrei cantato una canzone come Shandeme, che sembra una canzone dell’Azerbaigian piu che del lago di Como”. C’è qualcosa quindi davvero di si lamenta il cantante folk? “Alcune canzoni mi rendono triste perche sembrano contenere qualcosa di triste gratuitamente ma lascio perdere, non le ascolto, non mi metto a far crociate. Credo di non odiare nessuno, forse, un pò, odio gli odiatori”.

