Articolo di Serena Lotti | Foto di Davide Merli
We are caged in simulations è il nome del videogioco del futuro dei Muse. Un videogioco aperto ed accessibile a tutti, di cui noi disponiamo della chiave. Un accesso senza password dentro una rete senza protezione. Non sappiamo cosa abbiamo appena tirato giù dallo scaffale, ma percepiamo che nulla sarà come sembra. Siamo tutti come cloni di Alan Parrish davanti alla scatola di Jumanji. Siamo pronti a giocare ad “un gioco che sa trasportare chi questo mondo vuole lasciare”.
Stiamo per raggiungere una dimensione parallela, alternativa, immaginaria. Saremo in breve dentro a mille universi e dentro nessuno in bilico tra un luogo spaziale che ci farà girare come dentro un vortice allucinato e dentro un luogo fisico, uno stadio, con i piedi sudati e i vestiti sporchi di birra. E speriamo che la musica ci terrà un pò al di qua del nostro mondo, della nostra comfort zone. Tanto da permetterci di non perderci dentro questo algoritmo musicale e visivo.
Questo è quello che abbiamo pensato tutti appena saliti sull’astronave di Matt Bellamy, Dominic Howard e Chris Wolstenholme.
Arriviamo poco prima al mega parcheggio di questa navicella spaziale dove ci aspetta il power trio, lo stadio di San Siro, l’aria è pesante, calda e appiccicosa. Una struttura scurissima big size inquietante e sinistra, schermi XXL, un palco che sembra un’astronave di Star Trek o una della Arche di 2012. A spuntare tutto questo assembramento di elementi massicci, una passerella lunghissima che divide in due il parterre, chiudendo lo stadio in due ale.
Alle 21 esplode San Siro. Matt Bellamy c’è ma non si vede, nascosto chissà dove (dal parterre assisteremo al live dai maxi schermi). L’attacco di Algorithm con la sua linea di synth a bassa pulsazione ci fa capire che è arrivato il capitano, un boato investe l’aria greve. Il music show più assurdo a cui abbia mai assistito è iniziato con un’evidente natura XXL dove il too much sarà il filo conduttore.
Welcome to the infinite black skies per citare il pensiero dei Muse. E di black skies parliamo. Nelle retrovie, ballerini cyborg arrivati direttamente da Tron e dalla fabbrica della OCP. Una sfilata di androidi daftpunkiani che ricordano il video di Around the World si accozzano simmetricamente e ritmicamente sul palco lasciandosi ammirare nel loro look fantascientifico, soffocati a tratti da luci al neon e da visual vaporware che illuminano una scenografia da sballo tra tributi agli anni ’80 e il rock psichedelico e allucinato del Muse.
Su Pressure Bellamy inizia a fare sul serio. Il suono pesantissimo della sua chitarra del futuro al neon si ammorbidisce solo un attimo sui riffettoni chugging del ritornello su cui ci sgoliamo come dannati e non si ferma nemmeno su Break It To Me dove gli androidi tornano alla ribalta appesi come manzi; siamo nel bel mezzo dei territori synth-wave in cui ormai ci rendiamo decisamente conto di essere nel pieno della fase di decollo.
Siamo nella future area di lisberghiana memoria, robot con le trombe, umanoidi terminator che si calano dall’alto dei maxischermi come mosche schiacciate su un parabrezza, fantomatiche piattaforme circolari su cui si muovono intorno a Bellamy agghindato con un assurdo outfit di pantaloni in pelle, occhiali futuristici e retroluminescenti, giacca in glitter a chitarra al neon.
Arrivati su Propaganda i Muse rivelano nuovi elementi coreografici riproposti sullo schermo con le grafiche giapponesi stavolta rappresentati da soldiers del futuro pronti a sparare fumogeni sul publico come in una festa di matrimonio degna del consenso del Boss delle Cerimonie.
Io sono nel parterre e la decenza ancora ci accompagna tutti. Siamo incollati ai maxischermi troppo rapiti da questa moria di elementi che ci distraggono da tutto il resto. E’ sui grandi classiconi che per i muser sono veri e proprio inni come Plug In Baby, Time Is Running Out, Supermassive Black Hole, Starlight e Upsrising che diventiamo un’unica onda melmosa e molleggiante e iniziamo a ballare, saltare e lanciarci addosso qualsiasi cosa. Iniziamo a girare lo shermo del telefono e lo puntiamo su di noi immortalandoci in selfie con sconosciuti, con slinguazzate più o meno prevedibili, magliette che volano, birre che scendono in gola come in una gara di bob, abbracci collettivi e smanacciate più o meno gradite.
Il momento della ballad gigiona non poteva mancare ed eccoci su Dig Down, con le luci dei cellulari a incorniciare un Bellamy al pianoforte facendo di questo momento la scena più instagrammabile dell’estate 2019 che farà a gara con lo sparo dei coriandoli su una stupenda Mercy dove momenti di rara tamarraggine diventeranno quasi commoventi.
Lo sweet moment è finito e il palco si ripopola di skeleton, mostri del futuro, androidi che danzano dentro a quella che potremmo definire un’autentica festa dell’entropia. Siamo in tour nella fabbrica del futuro in piena visione retrofuturistica che strizza gli occhi al cinema degli anni 80, trascinandosi dietro Marty McFly e Sarah Connor. Finchè teniamo gli occhi sul palco siamo dentro questo trip fantascientifico ma se solo abbassiamo lo sguardo ritorniamo al nostro presente del 2019 tra magliette dei Pink Floyd e dei Ramones, tra gente che fuma e beve, con zaini scallati pieni di roba e canotte slabbrate a mostrare i peli delle ascelle o i tatuaggi rifiniti. E’ uno spettacolo folle, ad alto tasso tecnico e saturo di elementi visivi, miscelati come in un flusso protonico incrociato e sparato a mille sul pubblico, con l’uso massiccio del wireframe, del rendering digitale, luci led, grafiche 3D, laser a mille, visual vaporware, la tecnologia spinta al massimo per un’esperienza dove la musica non è che a corollario di un progetto più grande, più ambizioso, ambientato nel futuro e dove noi proviamo a rincorrerlo senza affanno, perchè in fondo ci piace stare con un piede nel nostro di mondo, quello afoso, fisico, tangibile, smanaccione.
Il mood altamente tecnologico a cui nemmeno le chitarre futuristiche e bassi si sono potuti sottrarre grazie a touch pad che hanno permesso a Bellamy e Chris di modulare pitch e suoni e spararli al massimo volume tramite altoparlanti grossi come moniliti con effettoni creati con kaoss pad e pedali fuzz con incursioni elettriche incendiare come molotov e che hanno avuto il compito di scardinare l’aria virtuale di questo live show surreale, per creare varchi di realtà dove la gente poga, salta, balla, urlafa crowdsurfing e canta.
Siamo alle battute finali, ecco il cyborgone nato e cresciuto durante il liveshow materializzarsi sul palco come un nostalgico Eddie on the stage 2.0: un immenso, smisurato, eccessivo scheletro robot che fa da wallpaper mobile ad un medley vigoroso che riunisce Stockholm Syndrome, Assassin, Reaper, The Handler e New Born. In chiusura Knights of Cydonia e Pray (High Valyrian), che Bellamy ha composto per l’album collaborativo ispirato Game Of Thrones.
Uno show dove tutto è stato elettroluminescente. Bellamy nei panni di un capitano coraggioso e visionario alle redini di un live incredibile in bilico tra l’esserne soffocato e il tenerne saggiamente il controllo tra distorsioni e ed effetti psichedelici e acidissimi proponendo ad un pubblico intergenerazionale una setlist ricca, tra musica elettronica e sinfonica, attraverso 20 anni di carriera che non ha scontentato nessuno, nè i muser più assatanati ne i neofiti.
Il tentativo del controllo della mente a tratti riesce a tratti no, nonostante le sonorità spinte al massimo su dimensioni futuristiche e dalla natura fortemente elettronica pop-heavy con luci reticolari e laser e con visual imponenti; l’effetto straniante non sempre è assicurato, a tratti sembra di stare seduti dentro ad un circo rock trash e sborone.
Un mondo parallelo fatto di suoni e uomini sintetici, di artisti concettuali alla guida di un mondo elettronico in testa ad uno show eccessivo dal sapore retro glam, ammicante e che cerca consensi e conferme.
Sul palco il futuro, nel parterre il presente. Sul palco la paranoia, lo stridore, l’eccesso, l’intangibile, la porta di un altro mondo aperta e mai confortante, sotto palco il contraltare fatto di orde di uomini e donne in carne ed ossa, sudati e vivi, che respirano e odorano, caldi di sangue pulsante, che limonano, ridono, si arrotolano tra le lunghe stelle filanti imbrigliandosi in abbracci nodosi, si fanno un tutt’uno morbido e gorgogliante di vita.
Non sappiamo dire se siamo stati ad un concerto rock, ad un musical o se ci siamo persi dentro un trip a rilascio controllato. Sta di fatto che, nel bene e nel male, questa è rottura lisergica e coesione insieme, è un nuovo modo di fare musica, un nuovo modo di viverla. A noi la scelta.
Non importa quanto i Muse vogliano portarci dentro ad un futuro distopico e cyberpunk, dentro una realtà apocalittica e alienante (e abbiano, per farlo, gli strumenti tecnologici più all’avanguardia) con armate di stormtroopers dalle movenze meccaniche a ricordarci che la musica non è che un elemento al servizio di qualcosa di più ampio e ineffabile.
Finchè resisterà la musica come elemento principale, sostanza e principio, materia e fondamento, fatta di strumenti che piangono e vibrano, resisteremo noi, sotto palco sudati, stanchi, innamorati e depressi, impauriti ed eccitati a rispondere che nessuno può portarci via dal nostro mondo, se non lo vogliamo. Resisteremo qui, resteremo qui, ringraziando del viaggio. Anche se quella ferocia illuminata e quella forza impetuosa si chiama Muse.
Clicca qui per vedere le foto dei Muse a Milano (o sfoglia la gallery qui sotto).
MUSE – La setlist del concerto di Milano
Algorithm
Pressure
Psycho
Break It to Me
Uprising
Propaganda
Plug In Baby
Pray (High Valyrian) – Cover di Matthew Bellamy
The Dark Side
Supermassive Black Hole
Thought Contagion
Interlude
Hysteria
The 2nd Law: Unsustainable
Dig Down
STT Interstitial 1
Madness
Mercy
Time Is Running Out
Houston Jam
Take a Bow
Starlight
ENCORE
STT Interstitial 2
Algorithm
STT Interstitial 3
Stockholm Syndrome / Assassin / Reapers / The Handler / New Born
Knights of Cydonia (Ennio Morricone’s Man With a Harmonica intro)

