Arriva al Teatro degli Arcimboldi di Milano il TIME CAPSULE TOUR che celebra i 40 anni di carriera degli EUROPE! Il sold out registrato fin dai primi giorni della messa in vendita dei biglietti è un chiaro segnale dell’amore (meritatissimo) che l’Italia ha verso la band scandinava, autrice di una delle profezie (fortunatamente) più sbagliate che siano mai state fatte.
Se nel 1986, con il loro successo The Final Countdown, acclamavano, a tempo di rock e con folte chiome, un conto alla rovescia finale ed un qualcosa che sarebbe presto finito, eccoli lì, splendidi splendenti alla soglia dei (o da poco superati i) 60 anni, con 11 album in studio, un singolo fresco di uscita e tanti progetti per il 2024, regalare al loro pubblico una performance carica di talento e passione, arricchita da quella componente del ricordo che, diciamolo, non guasta mai!
Arrivo con anticipo a teatro e… meno male! Una lunga fila circonda gli Arcimboldi: prima volta in cui vedo usare metal detector e togliere i tappi alle bottiglie in questo luogo. “Ordine della band!” mi dice un’addetta ai lavori. E subito mi sale l’ansia da prestazione “che cosa si aspettano da noi stasera?!?!” Il pubblico è principalmente adulto, la sala trasuda di metal e hard rock e la combo con le linee essenziali e geometriche della venue è tanto inusuale quanto bella. Spoiler: stare seduti sarà veramente difficile!
Sono le 21.00 in punto quando, sul telo bianco a fondo palco, la proiezione di un conto alla rovescia termina con immagini di interviste alla band. Un documentario che mi porta a pensare a Europe – The Movie, il film in uscita il prossimo anno che ripercorre la storia del gruppo, dagli esordi, alla fama, dalle battute d’arresto fino ai successi di oggi. Ma è solo un assaggio. Pochi minuti ed eccoli entrare tra luci bianche e dare il via al live sulle note travolgenti di On Broken Wings cui segue, senza interruzioni, la possente e tonante Seven Doors Hotel, con la band avvolta tra luci blu e rosa che quasi coprono la (ben nota) scritta Europe, a caratteri gotici posta al fondo della scena.
La poltrona è una sorta di trappola da cui ti vorresti liberare, ma non puoi. Sono i primi brani, ma è evidente che la band è in grandissima forma, oltre ad ogni mia personale aspettativa. Joey è inarrestabile e lo sarà per tutto il live. Alterna pose plastiche – il cui effetto scenico è ancor più accentuato dal pantalone attillato, camicia ampia e da una statuarietà che non teme il tempo – al percorrere il palco da una parte all’altra, ballando, suonando, ruotando l’asta del microfono come solo lui – grazie all’altezza – può riuscire. Per non parlare del dialogo con il pubblico. Incita, e quasi solleva la voce dei fan con il movimento del braccio in Sever Doors Hotel; fa tenere il tempo con il battere di mani, che diventa così l’intro di Rock The Night, canzone dalla resa apoteotica, durante la quale Tempest scende tra il pubblico per prendere “da vicino” l’abbraccio dei fortunati delle prime file. I compagni di palco non sono da meno e non perdono occasione per concedere assoli, coinvolgere e scherzare con i fan.
Dopo il singolo, uscito il 29 settembre (che anticipa il 12esimo album) e inserito subito in scaletta, Hold Your Head Up, dal rock ritmato che rimanda agli esordi, in cui la chitarra dell’affascinante (in senso artistico) e sempre impeccabile John Norum la fa da padrone, arriviamo alla prima ballad, Dreamer, dall’arrangiamento minimale voce e tastiere che lascia spazio al pubblico, che per la prima volta riesce a sentire sé stesso cantare … a gran cuore! Ma è solo un respiro: si torna epici, con la marziale War of Kings seguita da Girl From Lebanon non senza essersi prima goduti un bel momento di assolo di chitarra, sempre dell’ottimo Norum. Tra il pubblico c’è chi soffre seduto, ma ci sono anche piccoli gruppi di impavidi che si alzano. La scelta non è facile! Con questo dilemma, ci avviamo verso la fine della prima parte.
Le tastiere di Mic Michaeli, lasciato momentaneamente solo, ci portano a lei, la power ballad per eccellenza che tutti, fan e non, ben conoscono e che ha attirato tanti hard heart verso l’hair metal: Carrie, cantata a gran voce, in una sala immersa nel rosso che trasuda sentimento. Ma subito arriva un altro cambio di passo: il primo tempo si chiude infatti con gli schiaffoni di Stormwind.
Giacca da rocker e foulard per Joey nel secondo set, che inizia potente grazie a Always the Pretenders, mentre la sala viene illuminata dal roteare di torrette LED, seguita dalla travolgente Ninja. Ci abbandoniamo per qualche istante, tra le tinte dell’oro, al tenue abbraccio di Prisoners in paradise, brano tratto dall’omonimo album, ingiustamente bistrattato all’epoca, ma che conferma sempre più, col passare degli anni, il suo valore.
In questo sali scendi di battiti e potenza, esclamazioni quali “Che figata!” e “Sticaxxi!” da parte di un frontman divertito, non manca un tributo: Space Oddity, di David Bowie, pezzo che tanto ha significato per la band, eseguito in duo Tempest-Norum, seduti vicini sui rispettivi sgabelli bassi: una sorta di unplugged dalla resa toccante.
Ma non c’è tempo per respirare e dopo una accorata Open Your Heart, iniziata solo chitarra acustica e terminata con la band, come a formare un’onda di suoni ed emozioni dalla quale emergono braccia protese da e verso il palco, ci avviamo ad un finale bomba, non senza aver avuto modo di conoscere meglio, grazie a momenti trascorsi in solitaria, John Levén ed il suo basso e Ian Haugland, che oltre alla sua simpatia ci delizia con una versione oltremodo rivisitata e ipnotica de Guglielmo Tell di Rossini eseguita drum solo e sostenuta da mitragliate di luce verso la platea.
Ready or Not e Superstitious sono da far saltare sulla sedia e alternano momenti di potenza pura a splendide geometrie, esaltate dalle luci, che si creano sul palco grazie alla disposizione degli artisti. La sala è impregnata di amore ed energia, nei volti e negli occhi vedo stampata quell’immagine di gioia che si ha quando ci si ritrova.
Terminano il concerto Cherokee e (esattamente, proprio lei) The Final Countdown durante la quale in teatro viene a crearsi una sorta di splendida bolgia, con gran parte di platea sotto palco, telefoni dispiegati a catturare qualche decina di secondi del brano che, quasi 40 anni fa ha fatto conoscere i ragazzi svedesi anche a chi il rock e tanto meno l’hard rock lo ha mai considerato.
Chissà se quel brano con quel tipo di successo è stato un bene o un male. Dal punto di vista della risposta e delle vendite non ci sono dubbi, ma, a livello di grande pubblico, ha indissolubilmente legato una band di talentuosi artisti ad una canzone e ad un’estetica che non li rappresentano nel loro reale valore. Li ha resi pop, portati nelle stanze di ragazzine idolatranti sotto forma di poster o adesivi e questo, nei musicalmente ricchi anni ‘80 in cui la musica faceva a gara con l’immagine, etichettava inesorabilmente, quasi declassando agli occhi degli esigenti (sedicenti) intenditori. Che errore!
Sì perché gli Europe vanno ben oltre al glam e alle teste cotonate. Hanno al loro attivo lavori di ottima fattura, che i severi anni ‘90 in cui il grunge aveva imposto un suo stile, non hanno voluto o saputo capire. Ma dopo lo scioglimento e la successiva reunion, con un pubblico ormai maturo e consapevole, eccoli lì, a riprendersi quello che è loro e ribadire cosa erano e cosa sono ora: una band che dopo 40 anni di carriera è in grado di tenere il palco per quasi 3 ore, con tecnica, energia e umanità. E guardare al futuro, con un film e un nuovo disco. Avercene! E sì… sono sempre molto belli!!!
EUROPE – La scaletta del concerto al Teatro degli Arcimboldi di Milano
Set 1:
On Broken Wings
Seven Doors Hotel
Rock the Night
Start from the dark
Walk the Earth
Hold Your Head Up
Dreamer
War of Kings
Girl From Lebanon
Carrie
Stormwind
Set 2:
Always the Pretenders
Ninja
Prisoners in Paradise
Sign of the Times
Space Oddity (David Bowie Cover)
Last Look at Eden
Open Your Heart
Memories
Ready or Not
Superstitious
Cherokee
The Final Countdown

