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ST. VINCENT: “Daddy’s Home”, mettete il vinile sul piatto e versatevi da bere!

La lista delle cose di cui un giornalista musicale (maschio, bianco, borghese, etero e cis) non sa assolutamente niente è abbastanza nutrita. Le tutine in latex appartengono a questa lista, di sicuro. Certo, sono sexy, terribilmente empowering, scomode da morire ma utilissime per tenere insieme i pezzi. Meglio del nastro gaffa! Soprattutto se ti chiami Annie Clark e hai appena rotto con Cara Delevingne. In breve, questo era il messaggio di “Masseduction”: accusare il colpo, sopportarlo, reagire, trasformarlo in qualcosa di utile e rimettersi in carreggiata. Un pensiero razionale e sintetico come il latex e affilato come un coltello. Struggente. Un album post break up, una maniera di elaborare una perdita. Le tutine sono servite al loro scopo, a giornalisti e ascoltatori toccherà archiviare le fantasie. Illusi.  

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Ora St. Vincent indossa altri panni (più morbidi) e pesca da un altro tipo di traumi per questo “Daddy’s Home” che cambia completamente rotta. Immaginatela chiusa in uno studio con Jack Antonoff, intenta a spulciare i vinili della sua infanzia, quelli che hanno formato il suo gusto musicale, quelli che l’hanno resa una persona. Ecco che si materializzerà un mondo pieno di eroine che sfuggono ad abusi di ogni sorta, come possono, mantenendo quella dignità tipica delle donne di mondo. Nina Simone, Marilyn Monroe, Joan Didion, Joni Mitchell, Tori Amos e Candy Darling. Sullo sfondo la selvaggia New York di inizio anni ’70, a terra tappeti bruciacchiati da mozziconi di sigaretta, nell’aria tutto quello di cui si ha nostalgia anche se non lo si è vissuto, i Pink Floyd, i Velvet Underground e Stevie Wonder. Che sogno pazzesco. 

L’artista ci racconta di un ritorno problematico, quello del padre uscito di prigione nel 2019. Date le premesse, prendere una poltrona e mettersi a suonare la chitarra, come nella sua performance al Saturday Night Live, sembra veramente l’unica cosa logica da fare. I ricordi, si sa, sono un terreno sdrucciolevole, quindi ne rimane distaccata, accennando solo di sfuggita “We’re all born innocent / But some good saints get screwed” e “All good puritans / They’ll pray about reform” su note prog-rock mai intrippate, che rimangono furbescamente orecchiabili, radiofoniche. 

Dopotutto “It’s just the melting of the sun”, come canta nel secondo singolo estratto. Che fare se non avvolgersi in completi di velluto, nascondere il trucco sfatto dietro a degli occhialoni da sole e godersi un bel tracollo bevendo qualcosa di forte? “But me I never cry / To tell the truth I lied”, sembra giustificarsi, quando citando una sfilza di donne iconiche deve fare i conti con quello che era, è e sarà. Una donna adulta, la più cool di tutte, ma che in fondo si sente sempre un po’ stramba e che rimarrà un’adorabile fuorilegge sotto ogni trasformazione possibile. 

In “Pay Your Way In Pain” parla di disavventure quotidiane, ricordando a volte Bowie e altre Prince, in “Daddy’s Home” suona complice mentre racconta delle sue visite al padre in prigione e del contrasto tra le divise dei carcerati e le scarpe in pelle Made in Italy che indossa. “Down” invece tratta di una relazione tossica di cui si è liberata, il video in particolare la ritrae invischiata in una sorta di spy story, mentre cerca vendetta. 

L’unico strumento valido che rimane ai protagonisti delle storie di questo album è il senso dell’umorismo, senza il quale resterebbero scoperti di fronte a piccole e grandi delusioni e momenti di felicità, che sono altrettanto pericolosi. Vanno menzionate e ascoltate più volte “My Baby Wants a Baby”, “…At The Holiday Party” e “Candy Darling”: quest’ultima dedicata proprio all’attrice transgender componente della Factory di Andy Warhol e che Lou Reed racconta in Walk on The Wild Side e Candy Says. Non è un caso che ci sia proprio lei nell’ultima track, “Queen of South Queens”, immagine perfetta per chiudere il viaggio nella New York vintage in cui St. Vincent ci ha riportati.

Da ascoltare religiosamente su un giradischi! Questa la tracklist:

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Anello di congiunzione tra le Spice Girls e Burzum fin dal 1988

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