Andiamo subito al sodo: esiste un solo modo per cominciare la recensione del ritorno dei The Rolling Stones, intendo dire, con degli inediti, dodici per la precisione, ed e’ con una domanda che non ha nulla da invidiare per complessita’ al dilemma dell’uovo e della gallina.
Come dovrebbe suonare, oggi, un disco dei The Rolling Stones? Cosa hanno da dirci ancora Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood, e cosa ci direbbe Charlie Watts se fosse ancora con loro?
Ecco, allo scoccare (esatto, scoccare) della prima track dell’attesissimo Hackney Diamonds, in uscita dopo diciotto anni finalmente il 20 ottobre 2023 il quesito diventa quasi dirimente. Probabilmente se lo è chiesto anche Andrew – Wotman – Watt, il produttore musicista, vincitore di un Grammy, 30qualcosa anni e una carriera che vanta nella sua scuderia artisti tra cui Bibier, Pearl Jam ed Elton John (un tipo che riconosce il messaggio universale della musica nella sua poliedricità), mentre portava a bordo di quest’impresa titanica Bill Wyman, Paul McCartney, Stevie Wonder e Lady Gaga. Insomma, cos’altro dovrebbe fare Dio, oltre a essere già Dio?
La risposta dei nostri beniamini potrebbe farci un po’ incazzare. Soprattutto se il tutto inizia con quella che e’ gia’ una hit da heavy rotation, Angry, la prima a essere stata condivisa con il mondo è che suona esattamente come dovrebbe essere un pezzo dei The Rolling Stones. Scanzonato, sfrontato, rock and roll, quel riff che ricorda Start Me Up e la voce di Jagger che e’ sempre quella, forte, fortissima, non ce li ha 80 anni, non ci credo, non lo si farebbe uscire cosi bene nemmeno in post-produzione. Insomma, un fomento. Don’t be angry with me, why you angry with me?


Scontato dire che tutto Hackney Diamonds va avanti per dodici tracce come un treno merci a tutta birra su rotaie che vorremmo fossero accidentate e un po’ retro’, ma in realtà sono meglio dello Shinkansen. Perché l’album sara’ stato anche registrato tra Londra, Nassau, LA e NYC, ma il concept, dall’artwork alla resa emotiva e’ nato, cresciuto e maturato negli anni 2020-something, nel post pandemia, nell’era del digital e della vita in technicolor. Quindi si scivola di track in track come in stazioni fluide del “Essere i The Rolling Stones” in cui apriamo kaufmaniane porte del nostro cervelletto per trovarci catapultati nella tangenziale spirituale dell’honky tonk ripulito, fresco e forse forse anche un pò paraculo di Watt. Niente di più giusto, niente di sbagliato, sia per chi c’era da prima che per chi c’e’ da molto di meno ma gira con il santino del re di Dartford nel portafogli.
Le proeittalate sono immediate, e trovano il loro apice nel riot-piece Bite My Head Off, grattato male come solo un pezzo che canta “if I was a dog/yeah you would kick me down” potrebbe essere (grazie anche al basso di McCartney), nel refrain oscuro e malinconico di un appartamento sporco a Fulham de Whole Wide World (da lanciare in radio, subito), e nell’ossessivo jaggeriano di Mess It Up (e qui la batteria di Charlie Watts vive). Live By The Sword e’ la parabola rock che subisce pesantemente il piano di Elton John (presente anche in Get Close) e il basso di Wyman, inclusa la morale altrettanto disfattista del vivi fino in fondo, finche’ non ci rimani, in fondo. Nel mezzo, simil-ballate blues e country come Depending On You e Dreamy Skies ci ricordano l’importanza di prendersi una pausa, soprattutto da quello che ti annienta (donne, principalmente, sia che siano meteore sfuggenti o amori sfiniti). Keith Richards guida le parole in Tell Me Straight, un time out per le corde vocali di un indomito Jagger che torna poi a sfogarsi nel gospel-blues-orgasmo di Sweet Sounds of Heaven, che altro non e’ che una sfida ad acchiappare note impossibili tra questi e una quasi irriconoscibile Lady Gaga (e il piano di Wonder a fare da sottofondo musicale). Sette minuti di preghiera ad altissimo volume, un pezzo che sa di maturita’ e anche un po’ di super band, ma soprattutto di sfida ai criteri base del marketing: stordisce l’ascoltatore, segna la climax del disco, chiude col botto.
Rimangono due minuti e mezzo quasi di remake, troncato, di Rolling Stone Blues di Muddy Waters, una leccata sulle proprie ferite.


Servirebbero più ascolti, ma a un primo sorso, dice il sommelier, si sa gia’ se il vino e’ buono o da buttare, e con questo continueremo sicuramente a pasteggiare per un pò. Anche perchè la promozione è appena partita e di inediti qui non se ne vedevano da 2005. Eppure Jagger e soci non hanno certamente bisogno di presentazioni per essere al centro dell’attenzione e di premi. Basti pensare che hanno vinto un Grammy per la rivisitazione delle loro opere in Blue & Lonesome e sono in tour-sold out da sempre, non da ultimo con il loro “Sixty” proprio l’anno scorso. Il tutto, poi, con una certa, divina età. Standing ovation e si, ancora un po’ di incazzatura.
Perchè non possiamo dirgli niente, non possiamo rimproverare Dio. Il prodotto è a sua immagine e somiglianza, non ci sono virate impazzite (meno male), c’e’ rispetto, tantissimo, per il proprio lavoro di una vita: c’e’ una ricchezza nella produzione nuova, e la voglia di fare di un gruppo di amici che ne ha passate parecchie e che nessun trentenne di oggi avrebbe e che mai sfocia per i Rolling Stones in una versione annaquata di loro stessi, sebbene siano sempre esattamente loro stessi, intrisi di anni di evoluzione della scena musicale (e il duetto con la Gaga ne e’ un chiaro esempio). Hackney Diamonds suona esattamente come avrebbe dovuto suonare. Angry, o meglio Angie, don’t be angry with me, lo dicono loro, alzando le mani subito. E allora perchè lo sono ancora?

