Articolo di Serena Lotti | Foto di Claudia Mazza
Let me sing the things you bring, and we can go down easy cantava il compianto John Martyn. Erano gli anni 70, Nick Drake era appena morto e Jeff Buckley decideva di diventare musicista. Ho scoperto quanto fosse salato il sapore della lacrime ascoltando Solid Air, Pink Moon e Grace. C’era catarsi e c’era riscoperta. C’era intensità e c’era la bellezza del baratro. C’era la perdita e c’era il dolore. Qunado ho iniziato ad ascoltarli ero molto giovane e molte cose da vivere fuori dalla mia stanza. Solo dopo la loro lezione ho compreso il significato della musica che è balsamo per l’anima quella che ti spinge ad aprire la porta per scoprire se il mondo è speranza o fallimento. Questo era vent’anni fa. Fino a quando non ho scoperto Glen Hansard a mostrarmi di nuovo la strada già battuta. Non parlo di stili, influenze, linguaggi musicali, sonorità o incasellamenti storici. Parlo di quanto Hansard, come pochi, sia in grado di scoperchiare ogni anfratto remoto dell’anima di chi lo ascolta, svuotarlo e lasciarci dentro pezzi di se stesso, per sempre.
Glen Hansard ha regalato al mondo un album incredibile, This Wild Willing, dopo altre passate e felici produzioni, un artista che tra venti o trent’anni si porterà dietro molto probabilmente un’eredità importante e chi lo sa, forse imperitura . La lezione di This Wild Willing si chiama condivisione, un concept musicale fatto di amore, innovazione e collaborazioni che si fondono meravigliosamente nell’esperienza condivisa di dodici musicisti che hanno lavorato insieme dando il loro personale stile all’album, che si è tradotto nell’espressione metaforica di tematiche umane in perfetto equilibrio su pattern stilistici e sonori differenti.
Un caleidoscopo di colori chiaro scuro e umori solari e tenebrosi allo stesso tempo, inquiteudini e solitudini, speranze e sensibilità il tutto costruito sui caratteristici schemi ritmici e stilistici hansardiani ed un songwriting d’autore.
Non siamo sorpresi di trovare al Fabrique una comunità di accoliti, di seguaci, raccolti in religioso silenzio; sembra l’inizio di un atto liturgico. Glen Hansard arriva sul palco insieme ad un’orchestra di ben 8 elementi, violino, basso, contrabbasso, tastiere, fiati, un collapse di strumenti che andranno a costruire nota dopo nota il mondo complesso e multiforme di Glen Hansard. Lui sorride e noi siamo pronti per il viaggio.
Il live sarà un felice connubio di vecchio e nuovo, di tributi e ringraziamenti, spaziando dai brani più famosi dei The Frames e dei The Swell Season, fino ai brani più iconici di Didn’t He Ramble e Rhythm and Repose sino all’ultimo capolavoro, This Wild Willing.
La stupenda e cupa I’ll Be You, Be Me ci apre le porte nel mondo hansardiano, un microcosmo cupo, ipnotico, solenne. La sala si immerge nel silenzio più assoluto e inizia a vibrare di energia e come ogni brano di Glen il crescendo è inevitabile, inesorabile e ci trasporta ovunque lui voglia, tra dissonanze e riporti psichedelici. Glen parte da un sussurro e finisce in un urlo liberatorio, il basso, pungente, gli archi in progressione, una progressione fluttuante dalle dinamiche magnetiche e siamo condannati ad innamorarci, a perderci per sempre fino a quando il grido straziante di Glen non fermerà tutto, in un attimo. Planiamo verso i territori sofisticati di Didn’t He Ramble, con la stupenda e rabbiosa My Little Ruin, e veniamo catapultati in un’altra dimensione. Le abilità chitarristiche di Glen sono incredibili e la dinamica speedy dei cambi degli accordi, complessi, srutturati si fonde in maniera stupefacente con la voce ruvida e grinzosa del cantautore irlandese.
Glen da autentico crooner è in grado di tenere il palco in una maniera che raramente ho visto in questi anni, riesce con naturalezza ed un incredibile magnetismo a trattenere il pubblico col fiato sospeso e sulle versioni piano solo di Bird of Sorrow e sul lead single off di Didn’t He Ramble, Winning Streak, eseguita da solista, Glen crea con il pubblico un’intimità e una carnale familiarità finendo in un sing along commovente.
E’ il momento di The Closing Door raccontata da Glen con i suoi memorabili crescendo; si apre leggera, flebile spalancandosi ad una salita melodica che si libera in un gaudio di sonorità tribali e dal profumo mediorientale, trasformandola in una litania, in una preghiera che ci salverà o ci condannerà per l’eternità.
Ancora memorabili lezioni con la malinconica Leave a Light, uno dei tanti solo guitar di questo live ma sicuramente uno dei più raffinati, l’Irlanda e l’addio, l’inverno e la malinconia, una meravigliosa ballad irlandese pregna di dolcezza che sembra un congedo straziante, un partenza senza ritorno, Glen si piega sulla sua chitarra in una preghiera ansante ed ingovernabile.
La lezione che ci vuole insegnare non è solo dannatamente umana, la varierà di dinamiche musicali e le influenze di stile sono esattamente la trasposizione della complessità dei tessuti umani.
Dalla lezione folk rock Brother’s Keeper in cui il pubblico si eleva con un handclapping contagioso, ai territori country blues e jazz dove fiati e violini tiranneggiano, dominano, imperano fino ai territori della world music, quelli delle ultime esperienze con i brani di più ampio respiro e di memorabili intensità.
Sulla cavalcata mediorentale di Fool’s Game veniamo avvolti dai profumi inebrianti della tradizione iraniana che si fonde magistralmente con le strutture neo-folk del brano, eseguito con infinita dolcezza da uno struggente del pianoforte. Il pathos non si ferma e veniamo rapiti da una commovente versione senza microfono di Grace Beneath The Pines in cui il tempo e lo spazio si ferma in un momento di autentica condivisione e torniamo a respirare su una trascinante quanto incendiaria versione di Way Back In The Way Back When tratta dall’EP del 2016 A Season on the Line, un blues elettrico e brioso in cui ritroviamo il Glen scanzonato e amico di tutti.
Andiamo in chiusura con un encore infinito, lirico, dal duetto con Nina Hynes, ad una lunghissima Her Mercy che diventa un corollario di crescendi eroici e strappi dinamici regalandoci un finale da brivido e la stupenda quanto toccante versione di Glen che da consumato blues man nero intona Good life of song.
Glen ci ha consegnato una lezione musicale incredibile grazie alla magica fusione di stili diversi ed in felice contrapposizione tra loro, in perfetto equilibrio su un ampio registro tonale e incastrati dentro un interplay multicolore di dinamiche sonore aperte ed armoniose.
Non è solo la vastità di stili differenti a firmare la poetica magmatica e raffinatissima di Glen ma è anche il ricco contrappunto delle caratteristiche umane diverse di cui ci racconta, umori in contrasto tra loro, una strada disseminata di amore e morte, di gioia e felicità, di perdita e liberazione. Glen è l’uomo dagli intensi climax e dagli struggenti lirismi, l’uomo che si rintana dentro la sua malinconia e poi ce la urla addosso con la sua voce ruvida e grezza riuscendo ad attraversare mondi musicali differenti, rallentando e accelerando elogiando nel contempo la follia che lo consuma.
La forza, la magia, la sincerità sprigionati durante questo live sono stati ineguagliabili, le capacità di questo artista di mettere in ogni arrangiamento, in ogni struttura sonora, in ogni costruzione melodica robustezza e levità, accuratezza e asperità, disillusione e speranza e capace di concertare il tutto con una maestria rarissima pregna di soavità ed eleganza sono stupefacenti. Crea con le sue performance dal vivo una profonda relazione col pubblico, come fosse la sua comunità di adepti, di discepoli, di amanti liberi e devoti che aspettano solo di essere guidati verso qualcosa che, forse, capiranno solo dopo, nel loro letto, abbracciati ai loro compagni di vita o nella solitudine di un abbandono che fatica ad essere accettato. La musica di Hansard non ti lascia quando la chitarra smette di vibrare, resta li sospesa nel tempo e nello spazio tra la gioia e la sofferenza: Glen Hansard la racconta con verità, facendoci accogliere la prima ed accettare la seconda. Glen è un uomo libero, è un rivoluzionario del pensiero, è l’artefice di un processo multicomponenziale complesso e ambizioso, potente e visionario. Glen ci racconta la sorpresa e l’attesa, l’intensità e lo strazio e ci fa salire su una nave che affonda inesorabilmente, ma che lui sta riportando a casa.
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GLEN HANSARD: la setlist del concerto di Milano
I’ll Be You, Be Me
The Moon (cover dei The Swell Season)
My Little Ruin
When Your Mind’s Made Up (cover dei The Swell Season)
Bird of Sorrow (Glen solo)
Winning Streak (Glen solo)
The Closing Door
Race to the Bottom
Didn’t He Ramble
Leave a Light
Storm
Brother’s Keeper
Time will be the healer
Way Back in the Way Back When
Grace Beneath the Pines
Fitzcarraldo (cover dei The Frames)
Falling Slowly (cover dei The Swell Season)
Lowly Deserter
Her Mercy
Fool Game
Encore
Song of Good Hope
The World (cover di Nina Hynes) con Nina Hynes
Good Life of Song
