Articolo di Andrea Forti – Foto di Daniele Baldi
Si potrebbero aprire discussioni infinite nel tentare di definire quale sia il miglior pregio di un festival; uno dei fattori più condivisi però potrebbe essere quel senso di vertigine allo stomaco, quella sensazione che qualcosa di magico ed indimenticabile possa accadere da lì a poco che ti compare quando ti trovi a scorgere in lontananza la venue di un evento. E quella cosa è sorta naturalmente quanto inaspettatamente venerdì 2 novembre, sulla scala mobile della metro di Torino – fermata Lingotto – nonostante per chi scrive quella sia stata la quinta volta che ha compiuto questo oramai noto percorso. È l’effetto dei grandi festival ed è quello che ha suscitato il Club To Club, arrivato alla maggiore età, trovatosi di fronte all’edizione con più affluenza della sua storia con ben sessantamila spettatori e una percentuale di stranieri che non abbiamo percepito mai così presente come in questo caso.
Merito di Aphex Twin come grande nome in cartello, o merito di una realtà che è passata da diversi club in giro per Torino ad un evento che ha culmine presso i padiglioni di Lingotto Fiera, quest’anno a capienza ancora più aumentata. L’ennesima variazione in aumento che sfortunatamente ha l’effetto di coglierci impreparati al punto che finiamo per perderci gli Iceage, smarriti per non ritrovarli dove pensavamo. Un rapido acclimamento, una capatina al guardaroba e via tra la folla già in attesa dei Beach House, in scena con la solita lineup sviluppata in orizzontale. Victoria Legrand e soci si concentrano su 7 e gli ultimi dischi, trascurando colpevolmente sia Teen Dream che Devotion. La performance scorre senza tanti picchi e il risultato è lo stesso col quale da anni ci hanno abituati: poco spazio al dialogo col pubblico, le canzoni in primo piano su una scenografia fatta di luci minimaliste e tanta penombra, riverberi di chitarra a dominare l’impianto sonoro non sempre perfetto, la voce di Victoria incerta e poco musicale un po’ per sue lacune, un po’ per scelta stilistica.
Una piccola pausa nel palco principale e vediamo ancora più gente accorrere in massa: è arrivato il momento di Jamie XX, il secondo nome di punta della giornata: attendiamo i primi minuti per verificare il tipo di proposta, che però notiamo subito non discostarsi dai dj set coi quali ci ha abituato nei vari tour e festival dallo scorso anno ad oggi. Dopo le sue prime sue scelte personali condite da un brano del repertorio solista decidiamo dunque di affidarci allo spirito della scoperta virando verso il Crack Stage. Skee Mask era l’incognita principale per noi: il producer tedesco, in cartellone all’una e mezza di notte, difficilmente avrebbe potuto portare un live del suo ultimo (e valido) disco Compro senza suscitare malumori per chi era lì solo per ballare; scopriamo invece che alla sua proposta IDM minimale in studio ha preferito portare un dj set che finisce per diventare una rassegna riguardante tutto l’arco della bass music, incrementale e incalzante: una sorpresa gradita sia per i fan che per i presenti, al punto da convincerci lungo tutto il set.
Ritrovandoci alle tre coi primi segni di stanchezza si è deciso di optare infine per un ultimo set prima di dichiarare finito il venerdì. Alle tre il clash era Peggy Gou vs Equiknoxx: partiamo per qualche minuto dalla prima, per la quale va dato il merito di non avere fatto sparire alcun presente tra la fanbase di Jamie XX ritrovatasi a sentirla; il richiamo del meno affollato palco secondario però ci porta a seguire il duo Giamaicano, aggiunto per l’occasione di una mc chiamata a rendere la performance meno asettica dalla sola live “carta carbone” del disco: effetto piaciuto da chi già conosceva il progetto, ma probabilmente meritava una messa in cartellone ad un orario anticipato rispetto a quello effettivo.
Secondo giorno che purtroppo parte con lo stesso handicap del primo: arriviamo a set di Yves Tumor giunto alle note finali; lo vediamo comunque tra la folla, microfono in mano, a scaldare l’ambiente col suo solito trasporto. A fine set le opinioni sono equamente divise tra chi ne ha apprezzato la follia sul palco e chi si aspettava qualcosa di meglio che un live-karaoke con base e voce, ma tant’è.
Un impegnativo cambio palco preannuncia la prossima presenza di Dev Hynes aka Blood Orange, di cui avevamo avuto qualche anteprima dalle stories dei presenti al Pitchfork Festival del giorno prima: band disposta su più livelli e Dev accompagnato da due coristi tecnicamente eccelsi con cui si dividerà gli applausi. Intervallandosi tra piano e chitarra, si produce in una messa soul che rapisce i presenti e li fa ballare dall’inizio alla fine; rimaniamo inoltre stupiti dalla quantità di persone che conoscono i suoi testi, segno che grazie anche all’ultimo bel disco Negro Swan ha potuto allargare di molto la platea di spettatori che l’ha visto con Grimes al Festival Moderno di qualche anno prima. Ci prendiamo un po’ di tempo per respirare un po’ d’aria e prepararci per la lunga sessione indoor che ci porterà fino al mattino, per cui ci perdonino Dj Nigga Fox e Serpentwithfeet (per il quale si odono i soliti lamenti di quelli “venuti per ballare” ritrovatisi davanti a performance di tutt’altro genere) ma la tensione per l’imminente arrivo di Richard David James era già altissima.
Della straordinarietà del set di Aphex Twin ce n’eravamo già resi conto lo scorso anno al Primavera, ma se è possibile l’ambiente al chiuso ne ha amplificato gli effetti: tra luci stroboscopiche, laser e visual originati in diretta che passano dai volti dei più noti piemontesi della storia fino alle interpolazioni delle facce del pubblico sovrapponendoci il noto sguardo bieco di James in puro stile Come To Daddy il producer ci porta nel suo mondo digitale, dandoci un’ora muscolare tra pezzi suoi (e del progetto AFX) e selezioni che comprendono anche artisti presenti in lineup; il finale con dieci minuti di soli laser e muri sonori a bpm altissimi arrivato ad interrompere l’unico momento di relativa tranquillità concessoci produce l’effetto che fanno i fuochi pirotecnici alla fine di ogni evento, quando si spara tutto l’armamentario.
Si giunge così allo special guest della serata, quel “?” che era stato fantozzianamente accostato tra i mormorii del pubblico a nomi importantissimi quali Luke Vibert e addirittura a Burial, in quella che sarebbe stata la sua prima apparizione di sempre. La console minimale preannunciava un dj set; il personaggio incappucciato arriva e come opener propone Faceshopping, facendoci trasecolare per un attimo pensando sia l’ennesima apparizione di Sophie al festival torinese o eventi correlati. Poco dopo cala la maschera e da essa esce il volto e il sound di Kode9, capace in quasi 3 ore di proporci una carrellata di generi e selezioni ad ampio spettro (dal garage alla juke, dal prime alla jungle) da non lasciare superstiti in pista.
Salutiamo così l’ennesimo festival delle conferme e delle sorprese, limitandoci a non soffermarci sulle carenze degli aspetti logistici o ai soliti problemi della location che oramai si sono cronicizzati, o magari parlando di alcune perplessità sulla scelta dei palchi (perché il Crack stage così lontano? Perché spostare il palco principale?) concentrandoci sul lato musicale che mai come quest’anno ha fatto in modo di accontentare tutti, abbandonando l’etichetta di solo festival elettronico per stabilirsi ufficialmente a fianco ai grandi eventi autunnali, pensando già al prossimo anno.