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Reportage Live

BULLET FOR MY VALENTINE + Jinjer + Atreyu: il racconto e le foto del concerto di Milano

Alternative Valentine: quest’anno non le frecce di cupido ma i proiettili del metal che ci colpiscono

Foto di Claudia Mazza | Articolo di Jennifer Carminati

Bullet For My Valentine, Jinjer e Atreyu in concerto il 14 Febbraio 2023 a Milano, questa è la data prevista per il tour europeo iniziato a fine gennaio e che sta riscuotendo un grande successo ad ogni tappa.

In questo febbraio ricco di appuntamenti, gli amanti del metalcore, tradotto, riff melodeath ed ampi ritornelli orecchiabili, avranno sicuramente scelto di passare la serata degli innamorati in quel dell’Alcatraz di via Valtellina, piuttosto che a una cena a lume di candela in quel di … scegliete voi la vostra Location ideale per una notte romantica, la mia sarebbe comunque ad un concerto (per chi fosse interessato ad invitarmi per il prossimo anno).

L’accoppiata BFMV/Atreyu è particolarmente ghiotta per una certa fetta di pubblico, mentre i Jinger sono indubbiamente di tutt’altra pasta, più di nicchia perché di un altro livello, e non me ne vogliano i fan dei primi ma non c’è storia; BFMV/Atreyu hanno già toccato il picco delle rispettive carriere e si accompagnano a braccetto in un lento e inesorabile declino, i Jinger invece sono indubbiamente in ascesa, sempre a personale parere e opinione della sottoscritta.

I numerosi fan accorsi in questo martedì sera dall’aria quasi tiepida non mancano certo di pagar tributo alle loro band preferite, accodandosi in maniera pacifica sin dal tardo pomeriggio davanti al famoso club meneghino che col passare delle ore si riempirà a dovere, sfiorando il tutto esaurito.

Son da poco passate le 19 quando fanno il loro ingresso sul palco gli Atreyu, band statunitense formatosi ormai nel lontano 1998 a Orange County, in California. Nel 2020 l’uscita del cantante Alex Varkatzas, dopo 22 anni di militanza, con il conseguente spostamento del batterista Brandon Saller ad unico cantante e l’ingresso alla batteria di Kyle Rosa, ha indubbiamente cambiato le dinamiche del gruppo, con le parti in screaming affidate al barbutissimo bassista Marc McKnight; alle chitarre i sempre presenti Dan Jacobs e Travis Miguel.

Jinjer in concerto a Milano, foto di Claudia Mazza

Tentando di tralasciare i pregiudizi inevitabili chi scrive ha provato, impegnandosi e non poco ci terrei a sottolineare lo sforzo, di muovere la testa e provare a farmeli piacere, e vi dirò che non ci sono riuscita del tutto, ma sicuramente non mi sono annoiata. Nei 40 minuti a loro disposizione la band, infatti, rodatissima, energica e davvero coinvolgente, riesce a dimenarsi tra hardcore, metal e alternative rock in maniera agile e orecchiabile, anche se a tratti al limite dello stucchevole nei ritornelli. Il corpulento Brandon, contro ogni mia aspettativa devo ammettere, è stato il frontman perfetto, incitando la folla, ringraziandola per il supporto e mettendo in scena numerosi siparietti divertenti, uno su tutti la rapida cover di “I Wanna Dance with Somebody” di Whitney Houston che ha fatto sorridere e divertire tutti i presenti.

Scaletta breve ma fatta di best of, sembrava che ogni singola canzone fosse una delle preferite dai fan, personalmente faticavo a capire quando finiva una canzone e iniziava un’altra, ma questo è un altro discorso (che per quanto mi riguarda varrà anche per gli headliner, ma ammetto che è un mio limite nell’ascolto di questo genere).

Preceduto dalla richiesta da parte di Brandon di vedere il primo circle pit ufficiale della serata arriva “The Time Is Now”, un vero e proprio inno rock che farà tenere il tempo anche ai più ostinati detrattori di una band che in questo preciso istante si allontana di molto dal metalcore più tradizionale ed approda in ambienti più alternative rock sullo stile Papa Roach per intenderci. Picco di massima partecipazione del pubblico si ha con ” Becoming the Bull “, durante la quale un Brandon scatenatissimo scende tra il pubblico e canta in mezzo ai suoi fan che non mancano di offrirgli pure una birra durante il veloce passaggio tra le fila. La recente “Save Us”, è già ben conosciuta dal pubblico e si prosegue con l’energia irriverente di “Battle Drums”. A chiudere il suono anthemico di “Blow”, degno di un finale.

La dipartita di Alex devo ammettere non ha azzoppato la band più di tanto dal punto di vista compositivo, e tantomeno in termini di resa live, perché Brandon si è rivelato un frontman a tutto tondo (anche le sue forme aiutano nella metafora, concedetemi la battuta), che sa intrattenere e coinvolgere il pubblico, senza andare a discapito della performance vocale. Il nuovo corso dei nostri, in fin dei conti, non è quindi troppo diverso da ciò alla quale la band ci ha abituato negli anni; siamo davvero ai confini del metal, anzi di metal nel senso puro del termine c’è davvero poco, ma se li amavate prima, continuerete ad amarli ancora, e questo è ciò che conta.

Cambio palco veloce e finalmente son le 20, il che significa che a breve saliranno sul palco i Jinjer, band ucraiana che sta riscuotendo finalmente il meritato successo anche nel nostro paese.  Acclamati da una ristretta parte del pubblico presente questa sera, come prevedibile, i quattro si dispongono in formazione con la batteria di Vladislav Ulasevich sul ponte di comando, l’eclettico bassista Eugene Abdukhanov sulla destra, il chitarrista Roman Ibramkhalilov e il suo immancabile cappellino sulla sinistra e infine varca la soglia Tatiana Shmailyuk, che per l’occasione indossa un body catarifrangente fucsia come il trucco in viso.

Jinjer in concerto a Milano, foto di Claudia Mazza

Albert Einstein disse che “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”, una frase che oggi più che mai, dopo un anno ormai dall’inizio dei conflitti, assume un significato ancor più forte per l’intera umanità e, in particolar modo, per la band ora sul palco e tutta la popolazione ucraina colpita.

Negli ultimi mesi ho avuto l’occasione di vederli ben tre volte con oggi e ad ogni occasione non hanno tradito le mie aspettative, forse questa sera un pochetto sì, però, devo dirlo per onestà intellettuale. Nonostante l’Alcatraz permetta loro di avere un audio impeccabile e una resa sonora ineccepibile che per la musica estrema è difficile ottenere in un contesto all’aperto come quello dei concerti estivi in cui li ho visti di recente, la loro resa complessiva è risultata, almeno alle mie orecchie, sottotono. La situazione a casa non aiuta certo, chi sarebbe di buon umore e con la voglia di divertirsi al posto loro, ma questa sera hanno peccato di zero coinvolgimento del pubblico, neanche una parola spesa verso lo stesso, e son sembrati, mi duole ammetterlo, quelli che per una volta han fatto il loro compito e son scesi dal palco.

Detto questo, la setlist proposta è una raffica di granate (e non vuole essere un gioco di parole macabro ma rende l’idea), partendo subito con l’accoppiata strabordante “Who’s Gonna Be the One” e “Copycat”, per poi proseguire attingendo qua e là da tutta la loro discografia, presentando anche il loro ultimo ‘Wallflower’, super apprezzato dalla sottoscritta.

La toccante “Home Back”, materializza con drammatico realismo l’incubo che il popolo ucraino sta ancora vivendo con un growl mai tanto rancoroso, rabbioso e frustrato (badate bene che il testo è stato scritto nel 2019).

Riflettori sempre puntati, neanche a dirlo, sulla FrontWoman Tatiana, che oltre ad essere una gran gnocca è pure un’eccellente performer; la sua capacità di passare dal pulito allo scream/growl feroce in uno schiocco di dita senza mai sbagliare è davvero strabiliante, sembra posseduta a tratti, credetemi.

Frequenze djent per “Judgement (& Punishment)” che si fondono al reggae, curiosa alchimia tra i due generi che si ripropone in altre canzoni del combo ucraino, con un risultato all’ascolto uniforme e compatto.

In mezzo a tutte queste energiche mitragliate c’è spazio per l’evocativa “Perennial”, in cui il passaggio tra clean vocals e growl è veramente da pelle d’oca, i battiti del cuore accelerano davvero e l’emozione che si sprigiona è incontrollabile, momento immortalato da una miriade di cellulari alzati a riprendere e postare live sui social (cosa capitata numerosissime volte durante tutto il concerto a discapito della godibilità dello stesso per chi sta dietro questi schermi).

“Dead Hands Feel No Pain” e “Vortex” riescono a scuotere un poco lo staticissimo pubblico, il cui entusiasmo non è però mai decollato, son mancati circle e mosh pit selvaggi a cui la band è abituata, colpa anche loro come detto inizialmente. La reciprocità è la base di ogni rapporto d’amore sano, e direi anche è necessaria per la resa di un live, dove è un dare per ricevere, ambo i lati del palco.

A chiudere i 45 minuti a loro disposizione ci pensano i voluminosi blast-beat di “Call Me a Symbol”, ottimo incrocio di groove e metalcore.

Il sound dei Jinjer, che mischia diverse influenze groove metal, metalcore, progressive e distorsioni pesanti tipiche del djent, violente e aggressive, creando una realtà unica e tagliente, è in grado di non passare inosservato anche al primo ascolto, come credo sia stato per i molti presenti questa sera, non certo per la sottoscritta che li segue e ama sin dall’album di esordio ‘Cloud Factory’ del 2014. Con la loro proposta difficilmente digeribile per i più e nonostante la pandemia e il conflitto russo-ucraino che li ha fermati inevitabilmente per parecchio tempo continuano la meritata ascesa verso il successo su larga scala; speriamo possano tornare presto a condividere la loro musica anche a casa e non resta che attendere con impazienza quel giorno, simbolo di una pace allo stato attuale ancora troppo lontana.

Bullet For My Valentine in concerto a Milano, foto di Claudia Mazza

Come sempre accade, e non mi stancherò mai di elogiare il lavoro dei tecnici e attrezzisti, il cambio palco è davvero rapido e son da poco passate le 21 quando si svela una scenografia semplice ma d’effetto, basata su decine di luci e riflettori puntati sul pubblico, per buona pace dei fotografi presenti.

Momento piacevole da ricordare quando durante l’attesa degli headliner, in sottofondo viene riprodotta “Chop Suey” dei SOAD e tutto il pubblico presente, ma dico tutto davvero, cantava a squarciagola il testo di questa canzone ormai ventennale. Non si può dire lo stesso per “Walk” dei Pantera (ma devo dirlo di chi è?!) che segue a ruota, ma non mi stupisce visto il pubblico presente, che non sarà certo quello che vedrò a Bologna il 2 luglio.

Torniamo al qui e ora e finalmente i Bullet For My Valentine arrivano sul palco, carichissimi e subito iniziano a picchiare duro sugli strumenti. Hanno suoni pulitissimi, ed è un piacere godersi il loro concerto anche per chi come me non è particolarmente avvezzo a queste sonorità; i gallesi hanno in pugno tutti i fan, che battono le mani quando richiesto e cantano quando necessario, o forse sempre a ben vedere e sentire.

Con l’opener thrash-oriented “Knives”, dove le chitarre serrate e il registro sporco sanno essere taglienti come i coltelli del titolo, Matthew Tuck & soci ci ricordano subito che con il loro ultimo album, volutamente auto-intitolato, hanno iniziato una nuova fase della loro carriera all’insegna di una ritrovata aggressività da troppo tempo mancante nelle loro canzoni.

La scaletta dà il giusto spazio all’ultima uscita appunto, ma è ancora la bomba d’esordio fra metalcore, spunti thrash e zuccheroso emocore, ‘The Poison’ del lontano 2005, il loro album più amato, a fare la parte del leone con ben quattro pezzi proposti: “4 Words (to Choke Upon)” che molti conosceranno perché usata dalla EA Sports in NHL/NFL 06, “All These Things I Hate (Revolve Around Me)”, “Suffocating Under Words of Sorrow (What Can I Do)” uno dei refrain più agguerriti dei BFMV e, ovviamente, nell’encore, l’acclamatissima hit “Tears Don’t Fall”, uno dei loro indiscussi cavalli di battaglia, con intro fatta in acustico, davvero una chicca.

Bullet For My Valentine in concerto a Milano, foto di Claudia Mazza

Tra i fan accorsi all’Alcatraz, che sembrano godere parecchio di quanto messo in piedi dai BFMV e lo supportano a gran voce, ci sono davvero tutte le fasce di età, con una indubbia prevalenza del range 20-35; sono i più vecchietti come la sottoscritta a storcere il naso per l’abuso di basi e ritornelli sin troppo canticchiabili.

Il bassista Jamie Mathias, un concentrato di carisma e pazzia, a mio parere è il vero frontman anche se Matthew Tuck dimostra la sua indubbia esperienza sul palco e una tecnica magistrale; Michael Paget si diletta in numerosi assoli di chitarra, mentre un Jason Bowld dietro le pelli non perde un colpo. Quello che mi è piaciuto di loro è che han suonato con entusiasmo e sembravano davvero contenti e divertiti di suonare per i loro fan italiani accorsi questa sera.

Il groove metal di “Shatter“ è davvero micidiale come anche la fusione tra thrash e metalcore di “Death By A Thousand Cuts” e stonano parecchio con la melodia lisergica di “Raibow Veins” , tutte sonorità presenti ampiamente nell’album self-titled che rappresenta comunque un insperato rilancio positivo per i Bullet For My Valentine, da molti additati come una band ormai alla deriva, che invece dimostra questa sera che ancora può dire la sua nel panorama odierno riuscendo forse a scrollarsi definitivamente di dosso l’etichetta di band per ragazzine emo-core degli anni 2000. Dal sesto album della band, ‘Gravity’, che non passerà certo agli annali del metal, perché davvero troppo ruffiano e commerciale, ci propongono “Over It”, “Piece of Me” e “Don’t Need You”. In mezzo al vecchio e al nuovo corso fan capolino anche, dal secondo disco ‘Scream Aim Fire’ del 2008, “Hearts Burst Into Fire”, “Scream Aim Fire” e “Waking the Demon”, con la quale i BFMV chiudono i 90 minuti a loro disposizione, donando ai fan un concerto indimenticabile che resterà nei loro cuori, ancor di più in questa giornata dedicata agli innamorati (pessima battuta lo so, ma mi è venuta così e moh ve la beccate).

I Bullet For My Valentine sono una delle band che meglio incarna il trend metallico più diffuso del nuovo millennio, ovviamente limitandoci a parlare della componente più commerciale del settore e prendendo i colossi Trivium (presenti tra pochi giorni on stage sempre qui all’Alcatraz) come esempio a cui riferirsi per spiegare più o meno il fenomeno fatto di evoluzioni varie e percorsi imprevedibili che creano una divisione netta tra vecchie e nuove generazioni. Questi ragazzi strizzano costantemente l’occhiolino verso refrein che riescono a incastrarsi in maniera cristallina nelle vostre orecchie e continueranno a ronzarci per ore, giorni, e anche settimane; non nelle mie ve lo posso assicurare, ma in quelle di moltissime migliaia di persone, e che c’è di più bello di questo? Forse solo il condividerlo con la persona amata, e se avete questa fortuna, non lasciatevela sfuggire, mi raccomando.

Alla prossima, rockettari e metallari del mio cuore.

Clicca qui per vedere le foto dei Bullet For My Valentine + Jinjer in concerto a Milano o sfoglia la gallery qui sotto

Bullet For My Valentine

BULLET FOR MY VALENTINE – la scaletta del concerto di Milano

Knives
Over It
Piece of Me
4 Words (to Choke Upon)
You Want a Battle? (Here’s a War)
Hearts Burst Into Fire
The Last Fight
Shatter
All These Things I Hate (Revolve Around Me)
Scream Aim Fire
Suffocating Under Words of Sorrow (What Can I Do)
Raibow Veins
Don’t Need You
Death By A Thousand Cuts

Encore:
Your Betrayal
Tears Don’t Fall
Waking the Demon

JINJER – la scaletta del concerto di Milano

Who’s Gonna Be the One
Copycat
Home Back
Judgement (& Punishment)
Pit of Consciousness
Perennial
Dead Hands Feel No Pain
Vortex
Call Me a Symbol

ATREYU – la scaletta del concerto di Milano

Strange Powers of Prophecy
Becoming the Bull
The Time Is Now
Drowning
Save Us
Battle Drums
Blow

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Bergamasca nell'animo, Milanese d'adozione. Di giorno Ingegnere di sera mi trovate con una birra in mano ad un concerto rock o metal. Amo camminare e visitare città che non conosco. Mi piace leggere e ovviamente ascoltare musica, immancabile sottofondo delle mie giornate. Per me essere Rock è una filosofia di vita. I'm hard on the outside but soft on the inside, come un tortino al cioccolato con cuore fondente, of course.

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