Articolo di Serena Lotti
4 Luglio 2023. Il folk singer per eccellenza Bob Dylan, dopo ben 5 anni di assenza, è finalmente tornato a Milano per una doppia data al Teatro Arcimboldi: sarà poi al Lucca Summer Festival, a Perugia per l’Umbria Jazz e infine a Roma, presso l’Auditorium Parco Della Musica.
Emozionati e trepidanti all’entrata ci sequestrano il cellulare. Dylan non gradisce riprese e video, il suo è un live rigorosamente smartphone free, il primo a Milano. Era dall’ultimo concerto dei Jethro Tull che non usavo il cellulare durante un live (lì non ci fu sequestrato ma l’osservanza della regola faceva appello al buon senso degli astanti) e la serata me la godetti al massimo, va detto. All’entrata il telefono finisce nell’apposita custodia Yondr: mi avvio in teatro munita di solo taccuino e penna, e non mi dispiace affatto l’idea di non spammare il mio Instagram di stories.
Chi ha seguito la narrativa del Rough and Rowdy Ways World Wide Tour (cominciato ormai il 2 novembre 2021) sa di non doversi aspettare nemmeno in questo tour i brani più iconici di Mister Tambourine Man, nè tantomeno gli afflati caldi delle chitarre acustiche, insomma, ancora una volta, niente classico concerto della mega star arrivata alla soglia degli ottant’anni: non c’è celebrazione, siamo fuori dai confini dell’autoreferenzialità, non c’è nulla di prevedibile in questo set di centoventi minuti senza bis, nè cesure, nè soluzione di continuità. Del resto sono vent’anni che Dylan si propone al pubblico così, comunicandoci che è ancora in uno stato evolutivo e che ha ancora molto, moltissimo da fare e da dire: non è ancora tempo per i concerti tributo di se stessi come molti dei suoi colleghi fanno da anni, e forse non lo sarà mai.
Il vate americano arriva su un palco scarno e minimal, tutto è circondato da pesanti panneggi rossi che richiamano le immagini noir della Black Lodge, prima che le luci si accendano c’è un silenzio ecclesiastico. Un tripudio di applausi riempie quel poco di spazio materico rimasto appena la luce riemerge dal basso, del resto la venue è completamente piena di gente.
Quello a cui assistiamo è tutto al di fuori dei riferimenti musicali tradizionali di Dylan, c’è folk, c’è rock e blues ma tutto è condizione, presupposto, teoria, suggestione. La setlist si concentra parecchio su Rough and Rowdy Ways come sapevamo: è un affresco punteggiato da frammenti di memoria, passaggi, piccoli corridoi melodici che ti portano con verso qualcos’altro, un altro dei mondi visionari di Dylan. I suoni sono perfetti, cristallini, ineccepibili, le chitarre di Bob Britt e Doug Lancio sono una continua produzione di magia, una malia che è pienezza, rotondità, autentico balsamo. Dylan rimane quasi nascosto dietro al piano ma per la maggior parte del set suonerà in piedi.
Non è il folksinger errante con la chitarra e l’armonica e i capelli scarmigliati, ma un pianista raffinato, un alchimista del suono che produce piccoli capolavori melodici per pochi eletti, per uno sparuto gruppo di fortunati discepoli: è una narrativa musicale incredibile quella a cui assitiamo stasera, una costruzione sonora ardita e complessa, con arrangiamenti che poco attingono alla tradizione, ma che si ascrivono nella filosofia artistica del mutamento, della continua ricerca; cambiando lente si potrebbe anche parlare di avanguardia.
Si passa dagli standard jazz, al blues più puro e sincero (dalla sequenza di accordi discendenti del famosissimo refrain di Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine, Gotta Serve Somebody e la più recente honky-tonk False Prophet) agli arrangiamenti in autentico stile swing di Watching the River Flow e i suoi assoli lussureggianti, fino ai tiri e ai guizzi più folk di When I paint my masterpiece (con un violino suonato magistralmente da Donnie Herron) e I’ll be your baby tonight dove l’alternanza di suggestioni blues, intenzioni jazz, incursioni di piano e cambi di ritmica danno vita a uno dei 10 minuti di live più indimenticabili a cui abbia mai assistito. Ed è altra suggestione, altra memoria, altri pezzi di storia della musica con ben due cover: That Old Black Magic di Jhonny Mercer e Brokedown Palace dei Grateful Dead, dove parte una standing ovation da brivido. Si va in chiusura con Every grain of sand e finalmente ecco Dylan suonare l’armonica. Quanta bellezza c’è stasera. Quanta poesia, quanto lirismo.
Quello a cui assistiamo è una sorta di inno meditativo, un esercizio di blues liturgico dove le dinamiche sono esaltate al massimo; il songbook di Bob Dylan perde la propria natura ideologica, ruvida, on the road della tradizione ed assume i connotati di uno storytelling raffinato, languido, ricercato, costruito dai suoni elettrici e acustici delle chitarre, dal lap steel, dal violino, dal contrabbasso: un’estasi alla quale non si sottraggono alcuni attimi di monotonia e tedio.
Ecco come Dylan non si snatura snaturandosi, ecco come Dylan restando se stesso ci offre nuovi significati e nuove trame a cui appassionarci, ecco Dylan che non interpreta Dylan. Lui resta giovane ed energico perchè applica la stessa formula al suo canzoniere. Per Dylan la musica e le sue canzoni non sono che una versione incorporea ed impalpabile della vita, elementi contrastanti ma vivissimi ed in perenne movimento e mutamento, in viaggio verso una perfezione assoluta che è la versione nirvanica della sua arte, una forma irraggiungibile. Ma è proprio li che sta il segreto della perfezione: la ricerca verso quell’estasi.
BOB DYLAN – la scaletta del concerto al Teatro Arcimboldi di Milano
Watching the River Flow
Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine
I Contain Multitudes
False Prophet
When I Paint My Masterpiece
Black Rider
My Own Version of You
I’ll Be Your Baby Tonight
Crossing the Rubicon
To Be Alone With You
Key West (Philosopher Pirate)
Gotta Serve Somebody
I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You
That Old Black Magic
Brokedown Palace
Mother of Muses
Goodbye Jimmy Reed
Every Grain of Sand
marco
05/07/2023 at 15:37
Brava Serena,difficile trovare una donna che scrive cosi bene di Bob-a tratti sembra musica d’avanguardia- anzi semra un ‘pò di tutto-ma bidogna essere capaci-marco
Franco
05/07/2023 at 16:25
fantastica recensione.
Mi ha commosso.
Nel leggerla mi ha proiettato al concerto quasi a percepirne le emozioni.
Grazie
Serena
05/07/2023 at 19:45
❤️grazie a te
Serena
Daniele
06/07/2023 at 00:52
Molto raro,una donna così appassionata del Vate.ottima la recensione,innumerevoli aggettivi, filosofia. Grazie. D.F.
Serena Lotti
07/07/2023 at 15:37
❤️
Francesco Nicotera
05/07/2023 at 16:36
Ho pianto, un momento alla musica il nostro Robert Allen, immortale.
Paolo
06/07/2023 at 09:42
Purtroppo questa volta, dopo le tante, non c’ero …. ma con le tue parole mi hai trasportato sotto il palco …. come sempre e’ stato un concerto di Bob lascia sensazioni ed emozioni contrastanti … all’apice per alcuni… deludenti per altri … ma quando si coglie quello che probabilmente l’artista vuole dare il cerchio si chiude perfettamente al cospetto di quello che resta un innarrivabile maestro.
gianbattista rosa
06/07/2023 at 10:22
Alle soglie degli 80 anni? Ne ha 82… e dopo 2 fregature, di concerti svogliati,masticati,sgarbati e mortalmente noiosi, volti (su questo hai ragione) solo a dimostrare di essere ancora “creativo” a modo suo, sia pure con una voce tornata accettabile, non mi becca più.
Daniela Cecconi
07/07/2023 at 00:33
Appena uscita dal concerto di Lucca,Bob da lontano seminascosto dal piano sembrava un ragazzino ..ha pure osato un grazie Lucca..Magia di blues e ritmo ..non abbiamo ascoltato i suoi brani piú famosi ..ma la magia quella c’é stata ..thank you Bob!!
Lorenzo
07/07/2023 at 09:09
La più bella recensione letta in Italia sui concerti di Bob Dylan di quest’anno. Brava!
Serena Lotti
07/07/2023 at 15:37
❤️