Foto di Claudia Mazza | Articolo di Andrea Forti
“Ho sempre un po’ paura di suonare a Milano“ ci rivela Adele Nigro, colonna portante del moniker Any Other dal palco del Serraglio, a metà set.
Un timore totalmente fuori luogo visto come stava andando la serata: già diversi minuti prima dell’inizio di ogni concerto una lunga coda aveva preso di mira l’ingresso della sala, ritrovatasi gremita a puntino. Un pubblico finalmente intelligente e rispettoso, che concede per tutta l’esibizione un religioso silenzio, interrotto soltanto dagli applausi e dagli incoraggiamenti nelle note finali di ogni brano.
Any Other è Adele ma anche Marco Giudici, fidato compagno di progetto ed essenziale alle tastiere e synth, è Miles Cooper Seaton metronomo al basso ed è soprattutto Alessandro Cau alla batteria, assorto in un nevrotico e sinestetico tutt’uno col suo strumento specialmente nei brani più avant della scaletta, che per volontà artistica ricalca l’esatto ordine dell’ultimo disco di casa 42 Records intitolato Two, Geography.
È facile intuirne e condividerne i motivi: un lavoro così personale e sofferto merita una narrazione il più possibile aderente alle ragioni e al filo logico che ne hanno portato alla stesura, senza straniarne il significato per qualsivoglia volontà di tenere alta l’attenzione di una performance che certamente non ne ha sentito l’esigenza.
Accade così che dopo l’iniziale A Grade, resa ancora più vellutata dalle spazzolate su pelli e piatti di Cau, arrivi subito il brano certamente più d’impatto dell’ultima produzione, Walkthrough: la resa la rende ancora più vivida e dettagliata dall’espressività della Nigro, sia nel volto sofferente che nella continua modulazione dei volumi del cantato; una precisa dichiarazione d’intenti su come la serata non verterà su uno show calligrafico ma sarà quasi uno storytelling cantato a cuore aperto, talvolta intimo quasi sottovoce (in Perkins, suonata in solo), talvolta affilato (vedasi il finale di Breastbone).
L’arrivo di Capricorn No viene introdotto da quella che potremo definire la dichiarazione d’intenti a conferma dell’esibizione intera: è normale stare male, avere i propri momenti no in cui tutto ci gira storto, ed è normale parlarne senza sentirsi giudicati o cercare di essere compresi. È forse questo ciò che ci ha reso così coinvolti ed attenti: in fondo tutti noi abbiamo passato momenti così, a prescindere dagli atteggiamenti e dai comportamenti adottati in risposta.
A disco finito, un saluto e un ringraziamento a Tobjah esibitosi prima di loro (un cantato personale alla Fabio Concato ben diverso dal lavoro con la sua band di provenienza, i C+C=Maxigross) e la scelta di fare altri tre pezzi da Silently. Quietly. Going Away senza encore (apprezzatissima da chi vi scrive, stanco degli assurdi siparietti e richiami della band sul palco).
Non si è trattato di una qualsivoglia volontà di stemperare la tensione fin lì accumulatasi con qualcosa di meno emotivo, perché anche brani del repertorio come Something raccolgono comunque parte del suo vissuto, fino all’ultima sberla in faccia arrivataci con una sentitissima Sonnet #4 suonata a sorpresa rispetto alla routine del tour: ultimo acuto di un live dove una ragazza poco più che teenager ci ha insegnato che non si può avere paura di esprimere i nostri sentimenti a prescindere dal peso che questi ci hanno provocato, e dal dolore che probabilmente ancora in parte subiamo.
Any Other: la scaletta del concerto di Milano
A Grade
Walkthrough
Stay Hydrated!
Breastbone
Traveling Hard
Perkins
Mother Goose
Capricorn No
Geography
A Place
Something
Sonnet#4
