Mi trovo combattuto.. mi trovo davvero combattuto…da una parte non posso negare la notevole perizia tecnica, la cura dei suoni, oltre ad una buona predisposizione agli arrangiamenti che il quartetto milanese “The Singer is dead” (fb.com/thesingerisdead) ci vuole proporre con il suo EP di debutto. Dall’altra… continua ad esserci qualcosa che non mi convince, ed è una sensazione che non mi ha mai abbandonato nel corso dei 5 brani (sei se si conta l’intro) che ho ascoltato per ore e ore prima di trovare qualcosa di significativo (secondo me, ovviamente) da dire a riguardo.
Parto dal principio, ossia l’intro che mi ha fatto pensare potesse essere uno di quei progetti “space-rock” che tanto adoro e di cui non ne ho mai abbastanza, fatto di loop sonori eterei intervallati da una discussione via radio tra astronauta e torre di controllo, ed infatti, il primo brano si intitola appunto “Houston, we have a band” …che nulla ha di spaziale. L’idea che mi sono fatto man mano i brani ed i minuti trascorrevano, è che i nostri ragazzi non abbiano una loro personalità ben definita facendo sembrare il loro lavoro, una compilation di outtakes dei capostipite del genere post-metal / post-hardcore / post-rock ecc ecc (Pelican su tutti).
Il risultato è un EP suonato ed arrangiato davvero bene, ma che manca di incisività, di un elemento di spicco e scade spesso e volentieri nei cliché del metal, partendo da sequenze di accordi spesso simili tra loro, sempre in quattro quarti, o dalle accoppiate dei riff delle due chitarre effettuati in simultanea su tonalità diverse, per fare due esempi. Un consiglio secondo me, potrebbe essere quello di “osare” di più, dal punto di vista creativo e compositivo, superare i confini. Troppo spesso una delle chitarre si slancia in assoli che vorrebbero forse sopperire la mancanza di un cantante, ma questo non dovrebbe essere un problema. Gruppi senza voce ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno ovviamente; semplicemente avrebbero dovuto spingersi oltre, tentare metriche, intrecci e soluzioni più originali ed incisive. Uscire dai canoni e stereotipi del genere. Ed è un peccato perché alcuni spunti sono davvero interessanti (ho apprezzato molto i riff di chitarra che utilizzano pitch-shifter, rimandandomi piacevolmente ai Cave in dell’epoca Jupiter e Perfect Pitch Black), la capacità c’è, l’esperienza personale anche… manca quella come band. Forse c’è semplicemente troppa tecnica e non ancora troppo cuore.
Il brano migliore resta a mio avviso “The last K’in, your head is gong to esplode”, forte di un ritmo incalzante dall’inizio alla fine, ai limiti del math-core, con stacchi quanto meno interessanti e delle armonie che giuro mi sono entrate in testa in tempo zero facendomele canticchiare da ormai due giorni (guarda caso mi ha dato l’impressione di essere il brano più sperimentale e non solo per l’intro suonato con un piano giocattolo).
Non male anche “Spiderman in outer space”, nonostante sfoci qua e la nei soliti cliché sopraccitati ed assoli “banalotti” sopra serrate aperture ai limiti dell’emo-core.
Non benissimo invece il pasticciaccio della conclusiva “Story of a heart landing”, che apre con un arpeggio interessante a cavallo tra Mogwai ed Explosion in the sky, per poi stagliarsi in questo assolo “epico” che mi ricorda un pò troppo quel capellone di Slash in November rain, per poi sterzare su ambienti quasi punk-rock che mi hanno lasciato non poco dubbioso, riprendendosi bene in un finale davvero notevole ed emozionante (qui vi dico bravi) che però ha il costante odore di “de-jà-vu”, e la sensazione che i quattro tendano a voler mettere troppe cose in ogni pezzo.
Peccato perché come ho già detto, le capacità ci sono, la tecnica anche, bisogna lavorare sulla creatività e sulla ricerca di soluzioni con maggiore personalità e consapevolezza. Non voglio comunque bocciare il lavoro perché si sente essere qualcosa di sincero…onesto quanto meno, colpevole magari della vita ancora giovane della band, alla ricerca di una propria identità, ed infatti quello che vorrei consigliare loro, è quello di rompere i confini entro i quali si sono stipati, non serve molto perché i pezzi in se non sono per niente brutti… ma indubbiamente c’è ancora da lavorare.
Piccola digressione tecnica, ai suoni di chitarra molto puliti, curati, cristallini, è associato spesso un suono di basso che personalmente avrei cambiato. Sembra, ad orecchio, che in registrazione sia stata valorizzata una la linea di basso diretta dalla testata piuttosto che microfonica, risultando in un suono a tratti nasale, con poco corpo e sotto la media del suono complessivo dell’EP: sono solo impressioni, ma è quello che mi è balzato all’orecchio in alcuni punti.
Aspetto il prossimo lavoro perché la possibilità di migliorare davvero c’è, eccome!
Emiliano Fassina