Finalmente un bel rock purificato da ossessioni, fisime, ragadi e quant’altro, finalmente una schiettezza doc che ci fa scordare le cifre improbabili di una cultura musicale “moderna” in asfissia conclamata. Dodicesimo disco in studio per Bob Mould, Beauty & Ruin, una purezza di chitarra distorta, batteria e voce vissuta che – senza nessun additivo astruso – detta la semplice legge di un rock d’antan sempre avanti anni luce a tanti esperimenti d’oggi.
Gli anni passati con l’hardcore negli Husker Du e Sugar dicono molto nella formazione stilistica del cantante/chitarrista americano, quella proteica virtù di spargere energia per poi ritrovarsi a nudo con la poetica sommersa ora venuta a galla in tutta la sua bellezza con la spina elettrica, e questo disco non fa altro che affermare la grandezza di questo artista, la sua sana voglia di cambiare – quasi nella mezza età – e postarsi nel cono lucente di un vezzo alternativo che fa scuola. Dodici brani diretti, che con disinvoltura vanno in circolo con un interesse spasmodico e fanno saltare muscoli e testa in un pogo inaspettato, senza mai guardare indietro nel passato ringhioso e svenato degli 80s a cavallo dei 90s.
Grande insegnamento questo di Mould, essere contemporaneo tenendo sempre fede alla sua cultura rock, come essere il primo della classe senza aver mai studiato una pagina che sia una pagina, e poi non veniamoci a lamentare se pezzi come i cortocircuiti mid-punk di Little glass pill, Kid with crooked face, Hey Mr.Grey o Fix it o la ballatona dal sangue teen Let the beauty be possono tranquillamente gareggiare con qualsiasi giovanissima formazione che abita l’indie dei nostri giorni, è solo una questione di “grandezza senza età”, e qui la natura ci ha visto molto, ma molto bene.
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