Intervista di Serena Lotti | Foto di Andrea Ripamonti
Il 2020 è iniziato da un pezzo e, dopo la pizza del papa alla fedele cinese, l’affair Harry e Meghan e le tanto dibattute elezioni regionali ci mancava un pò di sana sentenziosità nella musica, e quella a cui siamo tanto affezionati è l’inflazionata querelle del chi salverà la musica dal depauperamento poetico al quale stiamo assistendo negli ultimi anni? E blablabla…e le riviste musicali digitano e pubblicano. Ma ascoltano veramente? Siamo così certi che l’itpop si sia davvero impoverito a livello di contenuti e sonorità o chi oggi scrive di musica davvero ha perso la capacità di saper cogliere? Ma davvero non ci piace più niente e dobbiamo criticare sempre tutto? Leggiamo invettive, critiche e contestazioni contro la musica italiana indipendente che muore, che si ripiega su se stessa e che è destinata a farsi soppiantare dalla trap e da ibride creature musicali nate dal digitale o peggio dalla musica mainstream globale. Ma è davvero così? Nonostante i detrattori, i contestatori, i critici, le playlist di Spotify e le big radio che sparano il contrario, la musica indie pop italiana si autorigenera, si rivitalizza di generazione in generazione ed esistono schiere di artisti che anzichè essere asservite al globalismo musicale imperante, si impongono con autentiche e originalissime creazioni capaci di restituire, bene e dio solo sa quanto, la parola poesia.
Basta guardare oltre, come direbbe un fotografo usare la lunghezza iperfocale, noi la chiamiamo capacità di cogliere la bellezza e li vedrete…flotte di cantautori, duo, trio con la pettorina SOS Io Salverò l’Itpop! arrivare a gamba tesa…
Tra loro, un’autentica ventata di aria fresca e profumata chiamata Il Triangolo band luinese formata da Marco Ulcigrai (chitarra, voce) e Thomas Paganini (basso, voce) che, dopo un silenzio durato 5 anni è tornata, ecco sì proprio a gamba tesa con un nuovo e acchiappantissimo lavoro, il terzo capitolo di un fortunato percorso artistico iniziato nel 2012 con Tutte le canzoni, seguito da Un’America del 2014: Faccio un Cinema uscito il 17 gennaio 2020 per Ghost Records. I cambiamenti sono tanti, l’uscita di Mauro Campoleoni, il cambio di sonorità, una maturazione importante che si percepisce dal primo ascolto, un tuffo nel pop più puro e morbido. Dopo l’avventura nel mondo del beat italiano degli anni ’60 dei primi due album, Marco e Thomas riprendono la direzione della tradizione cantautorale italiana retrò, tra personali ricerche sonore, un cambio di prospettiva e la voglia di raccontarci i loro temporali nella testa… (cit Nella Testa)
Abbiamo incontrato i ragazzi nell’affollatissimo Rocket Bar di Milano durante il release party per l’uscita del disco, alla presenza di tantissimi amici e fan e durante il quale Il Triangolo ha presentato alcuni brani in chiave acustica in un live intimo. Qui abbiamo avuto l’occasione di scambiare con loro qualche parola e gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di più sul loro percorso artistico e su questa nuova avventura…
Benvenuti ragazzi e congratulazioni per l’uscita del disco! Noi siamo curiosissimi di sapere perchè avete scelto questo nome per la vostra band… Alla maggior parte di noi viene in mente Dark Side Of The Moon, gli Enter Shikari, o la copertina di Seven up degli Ash Ra Tempel e il Dottor LSD. Che significato ha invece per voi? E siamo anche curiosi di sapere cosa rappresenta la copertina dell’album…
Abbiamo scelto questo nome perchè eravamo 3 e ci sembrava un po’ un inno ai power trio del passato. Ci ricordava anche i nomi delle band della beat generation italiana. La cosa divertente è che ora siamo rimasti in due, ma sul palco ci vedrete in quattro, quindi non saremo mai più in tre, ma sono convinto che questo possa rendere il tutto più interessante. La copertina del disco non è altro che il biglietto di ingresso per vivere le storie che raccontiamo in queste 9 canzoni.
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una sorta di frammentarietà della scena musicale italiana, da una parte la corsa alla musica ibrida come pop punk, emo, mumble rap e trap, dall’altra un netto ritorno al vintage nell’itpop, se penso ad esempio a Dente, Calibro 35, Brunori Sas, Colapesce, Fulminacci. Cosa ne pensate di questo scenario? Voi ad esempio come riuscite a mantenere un equilibrio tra il presente e il vostro stile vintage?
Penso che oggi nel panorama alternativo italiano troviamo le band pre-itpop (come quelle che hai citato) che hanno conservato grosso modo il loro stile musicale, spesso legato a un sound più vintage, e poi ci sono tutti quei nuovi artisti comparsi sulla scena che invece sono completamente proiettati verso i nuovi generi. Noi come al solito facciamo fatica a collocarci in un qualche settore. La nostra scrittura parte sempre da una matrice un po’ retro’. In questo disco però ci siamo fatti aiutare da Riccardo Montanari (Belize) e Giacomo Carlone che hanno apportato alle canzoni quella dose di contemporaneità che cercavamo.
Sono passati 5 anni da Un’America; come è cambiata la vostra musica e la vostra scrittura in questo periodo?
La modalità di scrittura è rimasta più o meno la stessa, il sound invece è abbastanza diverso da quello dell’ultimo disco. Un’America era piuttosto scuro, avevamo scelto chitarre più distorte e in generale un suono più rock. Anche i testi erano un po’ più introspettivi, questo pero’ immagino sia dovuto anche al periodo che stai vivendo in quel momento a livello personale. Questa volta avevamo bisogno di un po’ più di bollicine.
In effetti ascoltando Faccio un Cinema ho trovato linee melodiche molto catchy e orecchiabili e una scrittura morbida e malinconica ma nel contempo ironica e molto contemporanea che si rispecchia, come è nel vostro stile, nello spirito autentico del cantautorato italiano degli anni 70. Rispetto al passato sembra un pò una virata di stile, perlomeno da un punto di vista sonoro, se pensiamo ai lavori precedenti dove gli arrangiamenti ed i suoni si muovevano dentro dinamiche e strutture più taglienti e ruvide.
Volevamo un disco più curato e abbiamo deciso di inserire anche degli elementi moderni. Questo è dovuto alla nostra crescita personale e al fatto che in questi anni i nostri ascolti si sono evoluti, inoltre abbiamo cambiato totalmente approccio rispetto ai lavori precedenti. Abbiamo lavorato sule canzoni direttamente in studio, senza fare troppe prove prima. Inoltre abbiamo semplicemente imparato a suonare un po’ meglio, i primi due dischi erano più punk perchè quello era l’unico modo in cui sapevamo suonare.
Come scegliete i soggetti delle vostre canzoni? Quanto c’è di autobiografico? Se penso a brani come Ivan o Faccio un Cinema…
Le nostre canzoni si dividono in due grandi gruppi. Ci sono quelle a tema autobiografico e personale, e poi ci sono quelle più romanzate, dove creiamo storie e personaggi che possono anche prendere spunto dalla realtà, ma che comunque si evolvono in maniera libera e indipendente rispetto alla verità. Ivan ne è un esempio. Faccio un cinema invece parla del fatto che ho comprato casa e che avevo un divano in pelle che d’estate diventava incandescente.
Ultimamente abbiamo assistito a molti feat, vedi Daniele Silvestri e Diodato, Bud Spencer Blues Explosion e Davide Toffolo, Daniele Celona e Pierpaolo Capovilla, Giorgio Poi e Calcutta, Giovanni Truppi e La Rappresentante di Lista e via dicendo. A voi con chi piacerebbe realizzare un progetto in feat e perchè?
Per questo ritorno non abbiamo pensato a feat ma non escludiamo l’idea di farlo magari più avanti, sono tanti gli artisti italiani che ci piacciono. Mi vengono in mente Generic Animal, Brunori, coma cose.
E’ sbagliato dire che la musica pop si sta “memificando”? Pensiamo a Tik Tok e Musical.ly che partoriscono micro-celebrity, oppure i talent e gli influencer che dettano trend e modelli, anche nella musica purtroppo. Il pubblico dei giovanissimi ascolta musica che nasce dalla viralità piuttosto che dai contenuti e sembra che ci sia un impoverimento poetico rispetto a quello che attrae musicalmente le nuove generazioni. Che parola di incoraggiamento volete dare a quegli adolescenti che hanno voglia di andare in sala prove e attaccarsi ad uno strumento, partendo magari dalla vostra storia personale?
L’unica cosa che possiamo dire è che la ruota gira, soprattutto nella musica. E che il fatto che oggi si ascolti musica con queste modalità non vuol dire che suonare in una band nella sua forma più classica abbia perso di significato. Quando un gruppo di giovanissimi decide di entrare in sala prove e di essere una band che fa musica con gli strumenti in mano, sta costrunedo le basi per qualcosa che nel prossimo futuro tornerà a gran voce, forse prima di quanto possiamo immaginare dato il bisogno continuo che abbiamo di nuovi input.
Come vi vedete tra 10 anni? Insomma cosa volete fare da grandi?
Io (Marco) vorrò lavorare il meno possibile, Thomas invece avrà 4 figli quindi comunque lavorerà tantissimo.
Ultima domanda: consigliate 3 dischi ai lettori di Rockon?
Floating Points – Crush
Michael Kiwanuka – Kiwanuka
Young Fathers – Cocoa sugar
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