Ho passato mezz’ora al telefono con Ghemon e ho dimenticato di chiedere delucidazioni sull’identità del gattone rosso che compare con lui sulla copertina del nuovo album, “E Vissero Feriti e Contenti”, in uscita venerdì 19 marzo. C’era parecchia roba di cui parlare e mi sono un po’ distratta: Sanremo, la pandemia, il contenuto di questo settimo disco, la pandemia, L’Ultimo Concerto, LA PANDEMIA!
Gianluca è reduce da uno scherzo orribile delle Iene (gli hanno toccato la preziosa collezione di sneakers, altissimo tradimento!) ma soprattutto dalla seconda partecipazione a Sanremo. Tempo di tornare quasi tutti in zona rossa ed ecco che è subito il turno di una sua nuova uscita, mai un attimo di noia!
Intanto, come stai? Ho l’impressione che tu non abbia avuto un vero e proprio momento di decompressione post festival data l’uscita imminente di “E Vissero Feriti e Contenti”.
Sto bene, grazie per averlo chiesto! Sono eccitato per l’uscita del disco di venerdì. Nonostante sia solo l’uscita virtuale, poi l’uscita vera del disco nei negozi è un’altra cosa. Momento di decompressione vera non l’ho avuto, qualche tempo morto in più ovviamente c’è stato e in questi momenti ho dormito!
Ci troviamo di nuovo più o meno nella stessa situazione in cui è uscito “Scritto Nelle Stelle” un anno fa! Come vivi questa cosa? C’è della rassegnazione per quanto riguarda questo periodo non proprio felice?
Più che rassegnazione a questo punto si tratta di vedere chi riesce a vincere, io o la pandemia? Farò uscire un altro album tra un anno, tra due anni e così via! Così facciamo un check per capire se questa cosa è finita e ce l’abbiamo fatta. Più che altro diciamo che non avevo voglia di fermarmi. Dobbiamo già stare fermi fisicamente, doverlo fare anche mentalmente non mi stava bene.
Puoi rivelare qualcosa per quanto riguarda progetti o eventi riguardanti la release? Certo, non è che si possa fare chissà che…
Ci sono tante cose da fare, tante coperture possibili a livello mediatico. In più rispetto all’anno scorso diciamo che siamo messi un po’ meglio. L’anno scorso eravamo in una situazione di lockdown totale, nessuno si spostava, nessuno andava da nessuna parte e non esistevano neanche i tamponi. Oggi i tempi sono simili ma diversi, quindi in cantiere ci sono un bel po’ di cose, magari non instore online come l’altra volta ma non escludo neanche che si possa fare qualcosa come ringraziamento ai fan più stretti, quelli più attivi.
Portare “Rose Viola” a Sanremo nel 2019 ti ha dato la possibilità di allargare notevolmente il tuo pubblico. Questo cambiamento ha modificato il tuo modo di fare dischi? Hai un approccio diverso ora?
Devo dirti la verità: no! Anzi, mi ha fatto l’effetto contrario, mi ha incoraggiato ad andare avanti con la formula che ho sempre usato. Potendo raggiungere più persone ho portato avanti lo stesso discorso. Anche la mia scelta di Sanremo di quest’anno lo dimostra, non ho fatto una scelta che accontentasse il pubblico ma che dicesse chi ero io in questo momento storico e come persona. Penso sempre che un artista debba andare incontro al suo pubblico ma anche guidarlo e prendersi la responsabilità di farlo, altrimenti arrivi magari come me al settimo disco e inizi a ripeterti, non c’è più niente di interessante, non c’è più una novità. Costituire sempre una novità, oppure fare qualcosa che non si aspettano, che li spiazzi, è la cosa che mi stimola di più.
E proprio l’ultima edizione di Sanremo si è dimostrata la più aperta alle novità! Com’è stato partecipare a un festival in un certo senso atipico, che si è finalmente levato di dosso la tradizione (almeno per quanto riguarda la proposta musicale)? C’è stato qualche artista che ti ha sorpreso tra quelli che conoscevi o che hai scoperto? Penso anche solo a Dimartino e Colapesce, arrivati dall’underground e andati così bene, chi riusciva a immaginarlo, magari anche solo un anno fa?
Sarebbe stata un’idea conservatrice non vivere la musica italiana com’è adesso e un errore saltare a piè pari l’attuale scena presente nel paese. Colapesce e Dimartino, che conosco bene e da tanto tempo, sapevo si sarebbero presentati in questa occasione con il loro stile e hanno fatto bingo e sono felice per loro. Fulminacci, che è molto giovane e ha portato la sua storia senza cambiare di una virgola, ecco, anche questa mi sembra una storia felice. Poi dietro le quinte più o meno tutti mi hanno preso da parte per dirmi che gli piaceva la musica del mio pezzo, gli piacevano le mie scelte, che sembravano originali. Essendo in un contesto di gara a volte la competitività può creare delle dinamiche in cui non ci si fanno manco i complimenti, invece comunque tutti quelli che ho incrociato (magari nel cambio palco, perché comunque non si poteva incrociare proprio nessuno quest’anno) non ne hanno fatto mistero e questo mi ha fatto molto piacere.
Soprattutto quest’anno sembrava che della gara alla fine non vi fregasse neanche più! Immagino abbia influito molto il contesto in cui è stato realizzato Sanremo. Più stressante l’edizione 2019 o 2021?
Della gara alla fine frega a chi arriva primo, secondo e terzo, ma per il resto Sanremo ora ha un’onda più lunga, non è più solo la gara, è diventato crossmediatico. Prima era un festival televisivo punto e basta, oggi vive sui social perché la gente lo commenta in diretta, poi si fanno i meme e i video vengono visti per giorni e mesi a seguire. Contano le storie che vengono raccontate quella settimana.
L’altra volta è stato più stressante fisicamente, questa volta più mentalmente. Fisicamente, per tutto quello che riguarda le interviste, perché Sanremo poi è roccaforte di tutte le testate quindi esci dall’albergo e devi fare il giro di tutte le postazioni e poi quando torni fisicamente in albergo ti devi già preparare. Questa volta si restava sempre in albergo e si faceva tutto a distanza e soprattutto era più difficile avere un feedback dalla gente. Durante un Sanremo normale ti aspettano anche fuori dall’albergo, ti chiedono cose, te le urlano per strada, quindi quello mancava, come il pubblico in sala. Quindi era importante mantenere la concentrazione, la tenuta mentale.

Ci avviciniamo a un argomento molto importante e che tu più di altri hai portato alla luce durante il press tour di “Mezzanotte” ossia la salute mentale degli artisti, di cui non si parla mai abbastanza. Volevo allargare il campo a tutti i lavoratori dello spettacolo che nell’ultimo anno sono stati abbastanza abbandonati a sé stessi e che tu hai sostenuto partecipando al flash mob di L’Ultimo Concerto, che però non è stato tanto capito dal pubblico. Che ne pensi di tutta questa faccenda?
La situazione è sotto gli occhi di tutti da un anno ed è in continua evoluzione. Abbiamo fatto di tutto per non far passare l’argomento in secondo piano, per non far dimenticare quello che stava succedendo e anche il festival doveva fungere da cassa di risonanza perché comunque vada con un protocollo molto preciso il festival si è fatto e ci hanno lavorato tante persone e doveva essere un banco di prova per altre ripartenze. Ora mi sembra importante passare ai fatti, perché i lavoratori che sono rimasti a casa se ne fanno veramente poco delle mie chiacchiere. Passate queste settimane un po’ dure che ci aspettano si deve provare a ripartire (parlo per i lavoratori dello spettacolo in primis, ma anche per tutti i lavoratori) perché inizia a essere un problema importante quanto quello della salute. È un dilemma grande anche a livello istituzionale, mi rendo conto che sia difficile, ma credo che nessun lavoratore dello spettacolo voglia rimanere ancora a casa sul divano, vuole ripartire e fare quello che ama, quello per cui ha studiato. Mi auguro che non si debba tornare a fare appelli tra un mese. Che le persone non abbiano capito o possano non essersi trovate d’accordo quando c’è stata la prima call to action con i cartelli su Instagram o quando siamo scesi in piazza o lo stesso vale per L’Ultimo Concerto, diciamo che ci sta, siamo in democrazia, anche cose che hanno un intento palese non vengono capite. Però almeno non siamo stati fermi, si è messo un argomento sul tavolo perché se ne potesse discutere e una discussione prevede che qualcuno sia d’accordo e qualcun altro no.
Quest’anno ha portato alla luce tante crepe nel sistema soprattutto perché i lavoratori non sono tutelati. Tanti nell’ultimo anno hanno abbandonato in favore di qualcosa di più stabile, quindi si inizia anche a domandarsi se si è tutti un po’ dei folli nel portare avanti progetti, circoli culturali, locali, festival a questo punto in nome della gloria! Il tuo contributo per L’Ultimo Concerto ha interessato il circolo culturale Germi, com’è nata la collaborazione?
Certo, una volta che si torna a lavorare non si può fare finta di niente! Ci si deve ricordare, anche in assenza di pandemie, di dare un riconoscimento anche a livello istituzionale a delle categorie che non ce l’hanno. Per tante persone non esistono neanche un albo, o dei sindacati, quindi dovremmo ricordarci che oltre alla parte di intrattenimento che sembra una cosa leggera c’è una parte di lavoro che va tutelata in quanto lavoro.
Essendo Manuel e Rodrigo due cari amici ed essendo Germi un posto che ho frequentato da quando ha aperto quando ho saputo che c’era questa possibilità mi sono sentito con loro e mi sono offerto volontariamente per fare qualcosa perché i posti belli, di aggregazione, che producono cultura, sono importanti, altrimenti veramente le persone rischiano di andare solo al centro commerciale e non trovare niente sul territorio che li arricchisca. Vanno salvaguardati e protetti perché sono posti intorno a cui la comunità si deve sviluppare.
“E Vissero Feriti e Contenti” ha un intro molto particolare e contiene anche un vocale di Ema Stokholma. C’è un’idea di fondo dietro a queste voci? Hai già dei pezzi preferiti all’interno di questo album?
Ema la conosco da tanti anni e quando il pezzo è venuto fuori, “Trompe l’oeil”, che è un pezzo con un sacco di francesismi, ho pensato a lei e lo stesso vale per l’intro recitato da Chiara Francese. Volevo che il disco fosse un po’ un racconto, un po’ più cinematografico, quindi alcune voci servivano per contestualizzare quello che stava succedendo, erano i personaggi che facevano parte del film e a un certo punto prendevano parola. Ema essendo francese era la più adatta e quando gliel’ho chiesto è stata felicissima e dopo dieci minuti mi aveva già mandato i vocali e mi ha aiutato a raccontare la storia meglio. L’intro l’ho scritto perché volevo che l’introduzione sembrasse la fine di una fiaba, come se i dischi precedenti fossero un libro che si andava a chiudere e dal pezzo successivo si andasse ad aprire un nuovo capitolo, e che quindi il disco parlasse di altro. È un disco un po’ di rottura con i dischi precedenti, ha un’altra energia, sicuramente è diametralmente opposto a “Mezzanotte” perché parla di tutt’altro e ha anche tutta un’altra energia e per me è anche molto diverso da “Scritto Nelle Stelle”. I pezzi preferiti al momento non te li so dire perché non li ho ancora fatti dal vivo, è una cosa di cui mi accorgo solo dopo averli fatti dal vivo.

La sensazione che ho avuto ascoltando “E Vissero Feriti e Contenti” è che ci sia sempre questa duplicità di quella che a me è sembrata una musa ispiratrice, non necessariamente una donna. Insomma, questa ispirazione che da un lato è motore ma dall’altro è anche freno.
Sì, certo! Ovviamente anche in un anno di grande fermo (il disco l’ho scritto negli ultimi cinque mesi) c’è stato un grande bisogno di muse. In senso concreto e in senso lato. Non raccontando di cose di fantasia ma essendo molto ancorato alla realtà mi lascio ispirare dai miei amici o dalla mia fidanzata, diventano loro le mie muse. A volte è anche qualcosa che mi è capitato in passato a ispirarmi, a volte è una conversazione tra sconosciuti che ho acchiappato. Mi interessa andare a prendere un po’ le pieghe della vita, le sfumature un po’ più sottili. Sarei incapace di fare una canzone in cui non c’è niente da capire, senza un secondo livello di lettura. Il tormentone estivo non fa parte di me. Perché anche se vado al supermercato a fare la spesa faccio una seconda lettura di quello che mi sta capitando. “Momento Perfetto” per esempio è un pezzo che arriva fuori come molto energico, molto positivo e poi se vai a leggerti il testo ne esce un significato molto agrodolce, aspro. Sono le parole di uno che sta facendo un bilancio e dice “Sai che c’è? Mi sono stancato delle cose che vanno sempre storte”. In tutto quello che faccio c’è sempre questa piega e la vita è fatta così, ti dà e ti leva.
Ho creato un box su Instagram per i miei amici, curiosa di sapere se avessero delle domande da farti: la maggior parte ha chiesto di motivare l’outfit di Sanremo (così diverso da quello del 2019!) e di conoscere la storia dietro alla scelta di portare i Neri per Caso alla serata delle cover, che hanno particolarmente apprezzato!
Come dicevamo prima, è un po’ una mia responsabilità non rifare cose che ho già fatto. Gli outfit erano diversi rispetto all’altra volta perché io sono diverso, ho i capelli diversi, io stesso sono un’altra persona. Mi sentivo di dare un’altra immagine, gli outfit per “Rose Viola” erano per quel momento lì e mi aiutavano anche ad avere volume e allo stesso tempo coprirmi. Invece stavolta non avevo voglia di coprirmi, quindi canotta e petto di fuori perché vale la stessa cosa per il disco, che non è più un disco di accettazione, anzi dice “Io sono così e ne sono pure contento” quindi anche io avevo voglia di mostrarmi.
Collaborare con i Neri per Caso è stato molto divertente, sono contento che sia piaciuto. È un’idea che mi è venuta e mi sono fatto dare il numero di Ciro dal mio amico Rocco Tanica e loro si sono detti subito felici di partecipare. Quando ci siamo incontrati ci siamo accorti che è stato subito un momento bello e di grandi risate. Risate di gruppo! Era sicuramente una cosa che mi mancava!
Dovremo aspettare ancora un po’ prima di poter ascoltare “E Vissero Feriti e Contenti” dal vivo, ma nel frattempo suggerisco di andarlo a cercare nelle piattaforme di streaming a partire da venerdì 19 marzo!
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