5 concerti in Italia (a Roma, Perugia, Torino, Verona e Ravenna) per Pere Ubu, per presentare “Carnival of Souls”, il diciottesimo album in 40 anni di onorata carriera. Concepito nel mezzo di una stagione concertistica imponente che ha fatto seguito alla pubblicazione di “Lady from Shanghai”, il gruppo ha già eseguito una versione dal vivo del disco, musicando in pratica la proiezione dell’omonimo film del 1962 (un horror ante-litteram diretto da Herk Harvey) che da il titolo al nuovo album.
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Non è semplice prendere di petto tutti gli incubi della società industriale, le nevrosi urbane, le paure generate dal suburbio di Cleveland: più che una città, un autentico inferno siderurgico. Ancora meno semplice interfacciarsi a queste lande desolate utilizzando i codici minimalisti ed anarchici della new/no wave e di quel rumorismo garage sperimentale che viene ben prima di qualsiasi etichetta noise.
Ci riescono da quasi quattro decenni i Pere Ubu, la più grande rock band americana degli anni 70 (forse la più grande di ogni tempo) che ha sempre avuto la profondità e l’attitudine adatte per filtrare questo malessere e strutturarlo in musica. (izona.it)
L’alienazione si raggruma intorno al tragico nichilismo di danze tribali fatte di pulsazioni di basso e fremiti metallici di chitarre e le canzoni si liquefanno in una sorta di post punk dub, carico di ripetizioni ipnotiche, disarmonie di folk urbano, blues malato e tappeti di ghiaccio elettronico ai confini estremi della ballabilità.
Non è poi un caso il riferimento alto all’ “Ubu Roi”: una piece teatrale che fa della satira, dell’irruenza verbale e dell’insofferenza alle convenzioni i propri capisaldi. E osceno, brutale, gradasso e tracotante, tragico e comico al tempo stesso è il massiccio frontman David Thomas (per il quale forse non bisogna aver paura di usare la parola genio): perfetta traduzione musicale in veste di crooner del protagonista dell’opera di Jarry, con la responsabilità di un’ingombranza contenutistica ben più consistente di quella fisica.
