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Interviste

È uscito “Sbarco”, album d’esordio solista di Angelo Trabace. Le note ci salvano!

È uscito il 19 Novembre Sbarco (Believe Music Italia/Sugar Music Publishing) l’album di esordio solista di Angelo Trabace, formazione classica al Conservatorio di Matera, radici lucane, milanese di adozione, da anni al fianco di Dimartino, Vasco Brondi, Francesco Bianconi. Noi di Rockon abbiamo avuto l’occasione di poter porre ad Angelo alcune domande, sull’album e non solo. Spero che anche voi, come me, possiate cogliere quanta bellezza ci ha condiviso!

Voglio iniziare col ringraziarti per il tuo tempo, sono molte le domande e le considerazioni che vorrei fare con Te. Inizio subito con: la copertina del disco. Appena l’ho vista, mi ha ipnotizzata. È solenne, carica di simbolismo. Ci vuoi raccontare come è nata e suggerirci una chiave di lettura?

Sono sempre stato affascinato da immagini, simboli ed enigmi che si prestano a varie interpretazioni e che nascondono segreti, da quelle raffiguranti la mitologia greca fino alle icone dei santi. La maggior parte delle volte in cui mi capita di disegnare, riesco fortunatamente a non pensare a quello che voglio fare. Solo a posteriori, dopo aver buttato giù una prima bozza, comincio anch’io ad interpretare le immagini e dove voglio andare. In questo caso volevo riuscire a creare un’immagine iconica e surreale, che celebrasse il pianoforte e lo rappresentasse in maniera luminosa, quasi psichedelica, poco austera e impostata, non amo molto i ritratti dei pianisti con le mani sullo strumento.

Sullo sfondo c’è questo mare dal quale emergono dei tasti neri naufragati, guidati da questo Occhio-barca che sembra portarmi altrove, in una dimensione dove questo caos forse riesce a trovare una via di fuga e salvezza attraverso un ordine armonico. È quello che in fondo ho provato a fare anche con la scrittura di questi brani (in alto quelle teste raffigurano le anime del disco), riconnettermi e collegarmi attraverso la mia musica con tutti quegli elementi naturali legati per lo più alla mia infanzia, ma appartenenti universalmente ad un inconscio collettivo. Campi di grano, natura selvatica, lune e pianeti, labirinti e fontane, falci, antenati e fantasmi del passato…tutto questo forse finisce nelle mie mani e mi dà la forza per suonare.

Questa è solo una possibile chiave di lettura, ognuno ci vedrà qualcosa a seconda del proprio bagaglio culturale e della propria sensibilità.

In merito alla composizione del disco. Inizia con Sbarco, che dà titolo all’album e termina con Preludio. Nel quotidiano, quando pensiamo al vocabolo sbarco, l’idea che ci facciamo è di un arrivo (o nuovo inizio, riprendo dopo questa considerazione). Mentre il preludio ci fa pensare ad una composizione che ne anticipa altre. Cosa c’è dietro a questa scelta?

Mi fa piacere che Tu abbia colto questa cosa relativa alla posizione dei due brani. In teoria (e logicamente) dovevano essere messi al contrario e cioè con lo sbarco come approdo finale, ma ho voluto inserire un preludio come ultima traccia, come se fosse appunto l’anticipazione di qualcosa che poi non accade, che accadrà in futuro o che è già accaduta da qualche altra parte, come se l’intero album fosse un’opera aperta, un nuovo inizio. E poi perché penso che la musica a volte sia quello che resta dentro di noi nel silenzio, dopo aver ascoltato un disco. 

Arriviamo alle prime due tracce, Sbarco e Rapsodia Contadina. In Sbarco, si sente la matrice classica, il sentimento all’ascolto è come di una carezza, un abbraccio che si apre, lasciando un che di sospeso. Rapsodia Contadina ha decisamente toni differenti: si viene catapultati in un dipinto di toni cupi, il piano è impetuoso! La mia emozione, guidata dal titolo, mi fa vedere/sentire momenti di vita fatta di duro lavoro, di vento e intemperie, di fatica che trova conforto nella dolcezza della sera. Sono entrambe ovviamente visioni personali, ogni ascoltatore avrà un proprio percepito, ma sono i primi passi dentro – lasciami dire – Angelo Trabace, dentro la tua creatività e perché no, la tua contaminazione. Cosa ci puoi raccontare di questi due brani? Quali sono i tuoi compositori o artisti di riferimenti classici e contemporanei e di cosa è per Te la contaminazione di generi e di strumenti.

Per raccontarti a parole Sbarco, prendo in prestito dei versi di Emily Dickinson tradotti da Silvia Bre, che un po’ è come se evocassero questa dimensione sospesa alla quale accennavi: “Come se il mare si dovesse aprire/mostrando un altro mare -/ e quello – un altro – e i tre/ non fossero che annuncio – / di epoche di mari – non raggiunti da rive – /mari che sono rive di se stessi – /l’eternità – è così.” Un brano come Sbarco rimanda sicuramente a una matrice cosiddetta classica. È una specie di quiete dopo la tempesta, dove il pianoforte e la musica provano a trasformarsi in un’isola di salvezza.

Ho ascoltato e suonato molta musica del Novecento e trovo che a partire già da fine settecento ci siano stati moltissimi compositori eccezionali, come al solito avanti rispetto al loro tempo. D’altronde compositori più celebri definiti classici poi, come Debussy, Satie o Ravel, si erano già aperti armonicamente a incursioni verso altri mondi sonori più moderni. I miei compositori di riferimento ultimamente sono anche i grandi compositori di colonne sonore del passato, tra tutti Rota e Morricone, fino ai contemporanei Desplat, Sakamoto, Badalamenti, Vangelis, Greenwood. Anche artisti più legati al mondo della canzone popolare come Antonio Infantino e Franco Battiato sono stati da sempre molto da ispirazione. Tra i grandi maestri che mi hanno formato durante gli studi al conservatorio ci sono su tutti Bach, Liszt e Brahms.

Liszt, così come altri compositori classici, prendevano elementi della musica popolare e li reinterpretavano con infinite e funamboliche variazioni su tema, un po’ come avviene anche nel jazz (premesso che io non credo a differenze di generi musicali e categorie). Rapsodia contadina, per esempio, nasce dalla melodia di una canzone popolare in dialetto lucano che si cantava dalle mie parti durante il periodo di carnevale, quando, con uno strumento antichissimo che nel mio paese si chiama cubba-cubba, si producevano suoni cupi e gravi, con una ritmica precisa e incalzante e si andava a cantare fuori dalle case dei padroni che avevano ammazzato il maiale per ricevere in dono un po’ di carne. Questo ricordo ha sempre suscitato in me una sorta di terrore e inquietudine mascherata a festa, che ho provato a trascrivere al pianoforte trasportando una filastrocca allegra legata a un mondo rurale arcaico, in una sorta di lamento in tonalità minori con accordi più macabri, quasi per provare a esorcizzare un evento traumatico del passato in un tempo presente.

La contaminazione poi, nasce come al solito dal confronto e dallo scambio. In questo caso è avvenuta al Blackstar recording studio insieme al produttore Angelo Di Mino, dove abbiamo mischiato poi il tutto con dei sintetizzatori analogici anni 70. In generale non ho usato altri strumenti a parte il violino e il violoncello, volevo sin dall’inizio che l’unico strumento percussivo fosse solamente il pianoforte e che tutte le composizioni del disco fossero solamente musiche per tastiere. Come ulteriore elemento ritmico però in Rapsodia contadina ho percosso con le mani direttamente sulle corde del pianoforte come fosse un bongo, fino a creare una specie di trance ritmica e ossessiva che invitasse a una danza catartica (come avviene nel videoclip di Rapsodia contadina diretto dalla documentarista Simona Bua girato tra le campagne lucane e l’isola di Favignana).

Scighera, lo diciamo per chi non lo sa, è come i milanesi chiamano la nebbia, quella fitta, che non ti fa vedere nulla, che Tu traduci in un brano delizioso, delicato, leggero, che infonde una sorta di pace e serenità. Per una associazione di idee, pensando a Milano e alla nebbia, vedo il Duomo, vedo il Naviglio ed è un attimo che mi si palesa quella splendida donna che era (e che è) Alda Merini. Ho ricordo di un tuo post su di Lei. La sua poesia entra nelle tue composizioni? Quale brano dell’album le vorresti dedicare?
Scighera è un omaggio a Milano, la città che mi ha adottato e in cui attualmente vivo. A proposito di Alda Merini, so che si dilettava al pianoforte. Ho letto che nel 2004 insieme a Milva hanno dato vita ad una performance durante la quale la cantante ha interpretato le poesie della Merini, accompagnata musicalmente dalla poetessa. C’è una foto bellissima che avevo trovato sul web che le ritrae insieme, sarebbe stato bello assistere a uno spettacolo così. La poesia in generale mi stimola tantissimo, a volte un verso mi entra nella testa e ci penso per giorni e giorni. A lei dedico la mia Scighera.

Dal nord a sud, dalla nebbia alla tarantella. Lost Tarantella, uno scorrere velocissimo di dita sul bianco e nero del piano, un inizio allegro che mano mano diventa sempre più potente ed incisivo. Dopo un intermezzo che stacca di netto per suoni synth, mi riferisco a Il cielo a bocca aperta si arriva a Rivelazione, brano posto al centro dell’album e traccia tra le più lunghe del disco. Qui ci catapultiamo in frame concitati, densi di emozioni, tra drammaticità, speranza e respiri, stop e ripartenze. C’è anche un parlato che non sono riuscita a decifrare, insomma un brano pieno, ricco, dal forte impatto su chi ascolta. Raccontaci di più. Qual è la rivelazione?
È un brano affannato, dove si fa fatica a cercare riparo e consolazione tra le note. Anche questa composizione, così come altre che compongono questo disco, è nata in modo molto istintivo, la struttura forse è la più articolata a livello ritmico del disco, ed è stato uno dei primi brani che ho scritto.

All’inizio doveva intitolarsi Trovo respiro, poi quando l’ho riascoltato a chiusura del disco mi è sembrato un brano in fuga costante da qualcosa di terribile. In quei giorni stavo rivedendo una scena del film Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij e sono stato colpito dalla risata di una donna, ad un certo punto del film. La voce impercettibile che si sente in sottofondo, è proprio dell’attrice che recita in russo un passo dell’ Apocalisse di Giovanni. Successivamente poi ho scoperto che la parola Apocalisse deriva da un termine greco che significa Rivelazione e ho deciso così che quello poteva essere il titolo giusto. 

Si prosegue con Memorie di un mammifero, Valzer delle cose abbandonate in cui possiamo ascoltare il violino di tuo fratello Alessandro e La crepa uno dei brani maggiormente contaminati dell’album, intendo il brano in cui fai maggiormente uso di sintetizzatori, in cui il piano dà l’incedere. Come è stato lavorare con tuo fratello e la tua famiglia in questo tuo esordio solista?
Con mio fratello sin da quando era bambino, abbiamo utilizzato la musica come mezzo di comunicazione principale, ma abbiamo iniziato a lavorare sul serio da pochissimo, lui ha nove anni in meno di me, anche se ha fatto già tantissima esperienza e possiede inoltre quello che in gergo musicale viene chiamato orecchio assoluto, che gli permette di tradurre immediatamente qualsiasi suono in nota, quindi riesce sempre ad eseguire una melodia prima ancora di leggere la parte scritta.

È stato bello arrangiare in particolare il Valzer delle cose abbandonate, perché è nato quasi per gioco da una melodia che mio padre suonava al flauto. In studio poi abbiamo trovato il modo per destrutturarlo e riarrangiarlo per renderlo, per così dire, più marcio e meno idilliaco, inserendo degli elementi di disturbo attraverso la preparazione del piano con forchette, coltelli e cucchiai appiccicate alle corde, per trasformarlo ancora di più in una percussione. Poi sopra ci ho registrato un’altra traccia, perché l’idea era che fosse un valzer sbagliato, suonato a quattro mani da due persone, su un vecchio pianoforte scordato e abbandonato nel seminterrato di un bar di un paesino di pochissimi abitanti.Ci si avvia verso la fine dell’album con Aftershow, caratterizzato da toni dolci, con quel pizzico di malinconia che ti accompagna quando stai rientrando casa, magari a piedi, con la cravatta rilassata e qualche bottone aperto o un po’ di trucco lungo il viso, dopo una serata passata in allegria e che è (già) finita. Si conclude poi con Preludio, brano tanto soave quanto solenne, con pennellate drammatiche date dal violino. Qui mi ricollego a quanto anticipato all’inizio. Sbarchi, ci accompagni da nord a sud, tra nebbia e tarantelle, tra visioni rurali e altre cittadine e termini con un Preludio. Questo preludio cosa anticipa? Cosa ci puoi raccontare sulla composizione di questo brano?  

La mia attrazione e, in generale, i temi legati alla composizione di questi brani, sono stati rivolti a ciò che è rimasto della mia infanzia al sud. Una filastrocca magica di mia nonna, per esempio, è finita nel finale di Lost tarantella, la natura che si riappropria di spazi tra chiese e case del sud abbandonate e trascurate da questo realismo capitalista, lo stesso sud che ho rivisto nei quartieri periferici di Milano, la paura e il presagio della fine del mondo in Rivelazione (siamo la prima generazione che si sta rapportando seriamente al concetto di estinzione).

Ma anche al tema più intimo di ciò che resta nel quotidiano, di una giornata intensa, la notte dopo una festa per esempio. Nello sporco dei bicchieri e nella tavola sparecchiata: nell’assenza sento che si realizza sempre qualcosa, avverto quasi sempre una presenza. Così, quando ci riesco, lascio scomparire l’io, questo critico e severo osservatore paranoico e provo a mettermi in ascolto. Ecco. Sono quei silenzi che poi diventano musica. Ho scritto uno swing che si chiama Aftershow appunto, che racconta un po’ questo stato d’animo di sentirsi più vivi proprio quando tutto finisce. Nella conclusione c’è il preludio perché sento che c’è ancora spazio per un inizio…

Prima di salutarci giusto qualche piccola domanda. Riporto una tua dichiarazione: “Scrivendo questi pezzi è come se avessi compiuto un atto intimo di libertà. Ho provato a suonare ciò che ho ascoltato dentro di me, ad abitare me stesso, affrontando la mia paura più grande che era quella di essere giudicato.” A parte che è una cosa stupenda, intendo il leggersi dentro e avere l’arte per condividerlo come hai fatto Tu con questo album, ti chiedo, è stato anche un atto di coraggio, oltre che di libertà, una sorta di catarsi? Quale giudizio temi o potresti temere maggiormente?
Ho sentito l’urgenza dopo una decina d’anni di collaborazioni nel mondo della canzone, di dare voce a questa mia parte più intima e inquieta, impaurita, ma allo stesso tempo più aperta al mondo, cercando in questo modo di disfarmi di qualcosa che portavo dentro da un po’ di anni. Più che un atto di coraggio, un atto liberatorio. Il giudizio che temiamo di più a volte è proprio il nostro, che proiettiamo a nostra volta sugli altri. Ho fatto pace (forse solo temporaneamente) con un po’ di mie paranoie perfezioniste e con questo severo e critico io. Mi sono ritrovato da solo in questo fiume di musiche senza chiedermi inizialmente dove mi stesse portando; forse per cercare una specie di riparo mi sono aggrappato alle note perché come diceva il direttore d’orchestra in un film di Fellini in mezzo alle macerie: Le note ci salvano!

C’è un brano che ti ha reso più fiero o del quale sei più geloso?
Cambia a seconda dei giorni e del luogo in cui mi capita di riascoltarli. Sono molto affezionato in questi giorni autunnali, per esempio, a Memorie di un mammifero

Come e dove ti vedi nei prossimi mesi o nei prossimi anni? Cosa vorresti per Te e per il tuo percorso di uomo e di artista? 
Fabrizio De Andrè scrisse: Vorrei diventare l’uomo che l’artista non ha mai lasciato crescere. Quanto è vero questo pensiero! Io mi auguro di continuare a trovare dei metodi per trasferire i miei stati d’animo in arte, lasciando tracce imperfette di me e che attraverso questo rituale creativo io mi riconosca in quello che faccio affinché poi anche gli altri possano riconoscersi. Non mi piace mentire a me stesso.

Quando potremmo vederti live con quest’album?
Il 12 dicembre farò un concerto di presentazione del disco alla Casa degli Artisti a Milano. Suonerò per la prima volta dal vivo l’intero album in trio con pianoforte, archi e sintetizzatori. Sarà una sorta di musica da camera elettrificata, accompagnato sul palco da Alessandro Trabace al violino e organi e Angelo Di Mino al violoncello e synth.

…Grazie Angelo! E grazie ad Ester e a Picicca!

Written By

Nata e vissuta sul mare, da qualche anno a Milano dopo una parentesi romana. Cresciuta a pane e Bruce Springsteen, da un lato gli studi scientifico matematici, un lavoro nell'IT che mi appassiona, dall'altro l'amore per la pittura, la scultura, la fotografia, il teatro e i film di Sergio Leone. Amo sia visitare città, sia la natura e lo stare all'aria aperta. La musica è una costante nella mia vita, ogni momento ha una colonna sonora; amo soprattutto la musica dal vivo, unico modo per conoscere veramente un artista. Amo scrivere e sono alla costante ricerca del modo migliore per tradurre su carta le emozioni. Sono profondamente convinta dell'importanza dell'amare e del mettere passione in tutto quello che si fa... con anche un pizzico di ironia!

1 Comment

1 Comment

  1. Francesca Faggioni

    03/12/2021 at 14:32

    Carissima Roberta che piacere leggerti e ascoltare ciò, che con tanta sensibilità hai saputo portare fuori dall’animo di questo artista.
    Mi hanno, personalmente, colpito alcune cose che lo descrivono vero, e profondo!
    Grazie perché me ne sono sentita parte viva e mi hanno fatto sentire parte di un mondo pulito e forte che combatte per un futuro migliore.
    Peccato non poter essere a Milano per vivere live questo momento.

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