Articolo di Chiara Amendola | Foto di Oriana Spadaro
Ad essere onesti, non ero molto esperta a proposito di James Bay. Conoscevo i suoi più grandi successi, sapevo che era inglese e che suonava la chitarra.
Arrivata al Teatro Romano di Verona però sono stata presa di soprassalto dai sensi di colpa, non solo mi sono ritrovata in una location mozzafiato, che mi avrebbe senza dubbio regalato emozioni fortissime, anche con un concerto dei Sonhora (che hanno aperto il live), ma ho temuto di perdere una grande occasione, vivendo solo in parte questa esperienza e di non poterla descrivere appieno. Dunque ho pensato: “Se ascolto il modo in cui il pubblico reagisce a ciascuna canzone, saprò quali sono i brani preferiti della folla, quelli che vale la pena raccontare”. Questa è una strategia che di solito funziona ma qualcosa ha intralciato i miei “piani” perché il pubblico si è scatenato praticamente su ogni accordo. Ad ogni riff è stato impossibile capire se si trattasse di un singolo, o di una traccia di un album.
Bay ha aperto il suo set con una carichissima esibizione di “Pink Lemonade”, la sua esile figura, delineata da un’anonima t-shirt e jeans skinny, aveva certamente qualcosa di irresistibile. Dopo aver cambiato la chitarra – gesto che ha ripetuto per ogni brano in scaletta – ha continuato a irradiare l’atmosfera positiva con “Craving”, prima traccia del suo album di debutto. Mentre ondeggiava senza sforzo tra i versi morbidi e il coro guidato dalla batteria, fasci di luce oscillavano tra il palco e il pubblico, creando uno spettacolo quasi magico.
Sono rimasta piacevolmente colpita dalla su voce, oltre che dal suo aspetto, lo ammetto. Il suo modo di suonare la chitarra è ben al di là di quello che mi aspettavo. James mette in musica un carico emotivo pesante che ti colpisce allo stomaco e ti fa male.
“Let it go” è una romantica ballad che negli anni novanta sarebbe stata sicuramente accolta da gente che agitava accendini, ora ad accompagnare le note ci sono solo le luci dei cellulari. Non so se essere triste per la caduta di stile o il testo della canzone che mi ricorda quanto sia difficile l’amore.
Non immaginavo ci fosse tutto questo trasporto dietro a un ragazzino che in fondo, a primo ascolto non è poi così diverso da George Ezra, Jake Bugg e il buon Paolo Nutini. Direi che James Bay è stato accomunato praticamente a qualsiasi artista con in mano una chitarra, una voce graffiante e pacata allo stesso tempo. Ma probabilmente, mi ritrovo a ipotizzare che tutto ciò sia il prodotto di una serie di influenze musicali che vanno dal rock ad addirittura quel soul che ormai si fa fatica a trovare in giro.
Prima di congedarsi Bay ha regalato alla platea una versione un po’ stile “Justin Bieber “di “Piece of My heart”, che per quanto toccante, e del tutto coerente con il mood viscerale della serata, non ha reso giustizia a sua Maestà Janis Joplin, che ha fatto del pezzo un vero momento di espiazione del dolore.
A fine concerto sono emotivamente devastata, “Hold back the river” arriva con una delicata brutalità che ti tramortisce e procura vertigini. Quasi mi dispiace lasciare a fine spettacolo questa piccola arena che sembra abbracciarti.
Se è vero che la musica diventa reale quando ti parla in prima persona, posso dire che quella di James Bay mi ha preso a schiaffi.
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James Bay – La setlist del concerto di Verona
- Pink Lemonade
- Craving
- If You Ever Want to Be in Love
- Peer Pressure
- Wild Love
- Break My Heart Right
- Need the Sun to Break
- Let It Go
- Us
- Fade Out
- When We Were on Fire
- Get Out While You Can
- Best Fake Smile
Encore:
- Piece Of My Heart (Janis Joplin Cover)
- Bad
- Hold Back the River
