Articolo di Silvia Cravotta | Foto di Marco Arici
The Boys Are Back al Carroponte e le danze possono ricominciare. A due anni dal loro ultimo concerto nella location di Sesto San Giovanni, i capipopolo dell’Irish (o Celtic, che dir si voglia) punk internazionale – con nel bagaglio dodici album e una carriera quasi trentennale alle spalle – sono tornati a Milano con un concerto in pieno stile DKM. Ad attenderli, sulla spianata del locale milanese, un pubblico variegatissimo, dai 10 ai 60 anni, ben fornito di magliette ufficiali e tatuaggi a tema, pronto a stendere le braccia verso di loro, a cantare e a danzare rispedendo al mittente quell’ondata di energia che i sette di Boston hanno diffuso dal palco per un’ora e mezzo.

THE CHISEL
Ad aprire la serata, poco prima delle otto, sono i The Chisel, belli arrabbiati come si conviene a una delle più rappresentative band britanniche del genere hardcore-punk e oi!. I cinque londinesi salgono sul palco quando la luce è ancora alta e molte persone sono ancora in macchina, dopo aver lasciato i loro uffici. Questo però non impedisce a Cal Graham di tirare fuori tutta la voce che ha in corpo, voce che si perde un po’ nel grande spazio aperto, seguito dai suoi che pestano – come si conviene – sugli strumenti. Una mezz’ora streetcore che si conclude con il cantante paonazzo e sorridente, e il batterista Lee Munday pronto per vincere un concorso di maglietta bagnata.
UNCLE BARD & THE DIRTY BASTARDS
Decisamente too rock for the Folkies and too folk for the Rockies, come amano definirsi, i nostrani “sporchi bastardi” arrivano un’oretta dopo con i loro fantastici outfit fatti di gilet, bretelle, coppole e cappelli vari. Sul palco fanno la loro comparsa, tra gli altri strumenti, flauti, una uileann pipe, un banjo e un mandolino, e il mood Irish comincia a caricarsi. Non è difficile farlo con questi sei italiani ormai figli adottivi di Erin, grazie al loro originalissimo mix di musica tradizionale irlandese e rock che li ha portati a esibirsi sui palchi di tutto il mondo e a suonare non solo insieme ai Dropkick (questa era la terza volta) ma anche con i Flogging Molly, i The Dubliners o i De Danann, solo per citarne alcuni. Guido Domingo al microfono e Silvano Ancellotti con la sua chitarra danno la carica al resto della band, che li segue alla perfezione, e tutti insieme arrivano all’exploit finale, che passa attraverso ballerine in stile Charleston che li accompagnano con le loro jig, e una chiusura dedicata – inevitabilmente – a Shane McGowan e ai Pogues senza i quali, dicono, “non saremmo qui”.

DROPKICK MURPHYS
Non c’è niente di più bello di quando il folk si mischia con il punk e con il rock. E i Dropkick Murphys sono maestri di quest’arte che coltivano dal 1996 e che tiene banco inalterata, nonostante il passare del tempo. Ancora orfana di Al Barr, il lead vocalist in pausa forzata per motivi familiari, la band del Massachusets ha pubblicato negli ultimi due anni due album – This Machine Still Kills Fascists e Okemah Rising, ispirati e incentrati su uno dei padri fondatori del folk americano Woody Guthrie – che hanno rafforzato ancora di più la loro ispirazione e dato contemporaneamente vita a nuove sperimentazioni acustiche.
Per la data milanese, però, Ken Casey e i suoi sodali hanno pescato a piene mani dal loro ricco repertorio, privilegiandolo rispetto ai lavori più recenti, e scatenando le emozioni di fan che conoscono a memoria tutte le loro canzoni. A partire da The Boys Are Back, che dà l’attacco dopo la breve intro registrata di Foggy Dew per voce femminile. Canzone corale, dal ritornello facile, non può che lanciare la volata ai bostoniani, coinvolgendo sin dall’inizio il pubblico in un singalong urlato. Sulla stessa riga Smash Shit Up, canzone diventata popolarissima sin dalla sua uscita post-Covid e perfetta per un inevitabile pogo, che nel corso della serata ha fatto la sua comparsa con contagiosa allegria e senza mai diventare un inutile spingersi a vicenda. Avanzano Good as Gold e Climbing a Chair to Bed, Ken si china e dice due parole all’orecchio della sicurezza: alcuni giovanissimi fan in prima fila vengono issati e fatti salire sul palco per seguire al meglio il concerto.

Johnny, I Hardly Knew Ya e Blood sono altre due canzoni che con i loro refrain picchiati non possono che caricarti a cantarli, alzando entrambe le braccia al cielo. Un breve momento di silenzio viene colto per far partire dal parterre il coro “Let’s go Murphys” che Ken accoglie con un sorriso, approfittando dell’occasione per ringraziare – cosa che farà più volte – tutte le persone presenti, sottolineando ancora una volta quanto i Dropkick amino il pubblico italiano. Il cantante ha colto ogni momento per entrare in contatto diretto con le persone venute ad ascoltarli, facendo avanti e indietro sulla mini-passerella sistemata davanti al palco, da dove ha stretto mani e cantato vis-à-vis con i suoi sconosciuti, ma amati, fan. Un atteggiamento che rafforza sempre più un legame già molto solido.

Dopo un ritorno al 1998 con Barroom Hero, tocca al 2001 con Forever e la sua intro flautata, canzone che sarebbe perfetta da cantare in un pub tenendo le braccia sulle spalle dei propri vicini di tavolo. La stessa sensazione che si prova quando è il turno di Worker’s Song e della splendida cover di You’ll Never Walk Alone, dove la commozione raggiunge il picco e vorresti solo abbracciare la persona che hai accanto, anche se non la conosci. Come quando si canta tutti insieme Rose Tattoo e non puoi non guardare gli occhi persi nel vuoto di alcuni mentre cantano “I’ve got your name written here, in a rose tattoo”.
The State of Massachusetts, Skinhead on the MBTA e la cover dell’irlandesissima The Irish Rover sono altri momenti utili per scatenarsi, mentre vedi gente volare sulla testa del pubblico in tentati crowdsurfing di breve durata. Gli encore sono due e sono memorabili: I’ll Shipping Up To Boston non fa in tempo a partire che un ragazzo è già sul palco (e non è la prima invasione di campo questa sera) e canta e salta insieme a Ken che si fa accompagnare volentieri sulla passerella, e lo abbraccia, abbracciando metaforicamente il suo pubblico, che ha tenuto per mano più volte nel corso di tutto il concerto. Chiude una versione comunitaria (cantata proprio da tutti) di Until the Next Time, che non è solo musica ma anche una bellissima promessa.
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DROPKICK MURPHYS: la scaletta del concerto al Carroponte di Sesto San Giovanni (Milano)
Foggy Dew (Charles O’Neill cover)
The Boys Are Back
Smash Shit Up
Good as Gold
Climbing a Chair to Bed
Johnny, I Hardly Knew Ya
Blood
Bastards on Parade
Road of the Righteous
Barroom Hero
Forever
Captain Kelly’s Kitchen
The State of Massachusetts
Worker’s Song
The Hardest Mile
You’ll Never Walk Alone (Rodgers & Hammerstein cover)
Rose Tattoo
Skinhead on the MBTA
The Irish Rover (Joseph M. Crofts cover)
Encore:
I’m Shipping Up to Boston
Until the Next Time
