Mi sono avvicinato al concerto di Beth Hart con molta curiosità, conoscendo solamente una manciata tra i pezzi più famosi, stregato dal bellissimo “concept” album “My California”, estratto dalla sua produzione che vanta, ad oggi, una quindicina di dischi tra album, live e collaborazioni varie (tra tutte vanno segnalate quelle con Slash e con l’ex enfant prodige Joe Bonamassa). Insomma, non posso decisamente definirmi un die-hard fan della cantautrice Californiana e mi avvicino all’Alcatraz, location scelta per l’unica data Italiana della Hart, con l’errata convinzione di assistere ad uno show dallo scarso richiamo di pubblico, ma vengo smentito non appena varco la soglia della discoteca Milanese. Il pubblico c’è, ed è numeroso. Ok, in realtà le viene assegnato il palco “B”, ma il locale è comunque gremito e l’attesa palpabile.
Sono le 21.30 precise quando Beth si presenta sul palco sulle note dell’intimista “Lay your hands on me” in versione piano e voce. Beth scioglie il ghiaccio in un istante e l’interpretazione è da subito intensa. La risposta del pubblico non tarda ad arrivare: i numerosi fans accorsi la sommergono di applausi prima ancora della fine del pezzo.
Con la seconda traccia “One Eyed chicken” la Hart viene raggiunta sul palco dalla sua band composta dai chitarristi Jon Nichols e P.J Barth, dal bassista Bob Marinelli e dal batterista Bill Ransom, e l’audience incomincia a scaldarsi. Sulle note della successiva, trainante, “Waterfalls” la coesione tra palco e pubblico è totale.
Al termine della suggestiva “Learning to live” la Hart si ricolloca davanti al piano per la sentita, bellissima, “My California”, una struggente dedica al marito, nonché tour manager di Beth, Scott (che a fine pezzo andrà a riscuotere direttamente sul palco un abbraccio). Un pezzo nel quale la Hart, probabilmente in tour o comunque lontana da casa al momento della stesura del testo, si rivolge al marito, unico in grado di comprenderla, colui per il quale è riuscita a “scacciare i suoi mostri”, rea di averlo fatto soffrire quando “inseguiva i suoi demoni nel deserto del proprio dolore”. Quei demoni che ne hanno minato il percorso umano e artistico, e che hanno lasciato tracce nelle sue composizioni. Frammenti di una vita spezzata, di uno specchio in frantumi che vedono Beth, negli anni post successo, attraversare una forte crisi depressiva, passando per un’importante dipendenza da alcol e farmaci sino ad arrivare alla morte della sorella (ripresa in “Sister heroine”), arrivando alla rinascita umana e artistica raccontata tra i versi di “Spirit of God”.
Il concerto prosegue con proposte live estratte dai vari dischi della Hart, dalla “poppeggiante” “Bang bang boom boom” (riarrangiata per l’occasione), passando per l’incantevole “St. Teresa”, all’esecuzione (su richiesta del pubblico) della nuova “Tell her you belong to me”.
“Better than home” sembra quasi una dedica all’Italia e al pubblico nostrano, a detta di Beth il migliore dell’intero tour.
In sintesi un’artista dalla voce unica, dalle sonorità jazz, blues, rock, una novella Janis Joplin in salsa Etta James, capace di spaziare tra i generi più disparati rimanendo fedele a quella graffiante anima rock che la rende un animale da palco come pochi altri. Sicuramente un gran bel Martedì sera per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di partecipare.
Articolo di Matteo Pirovano
Scaletta Beth Hart – Milano, 29 Aprile 2015
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