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Interviste

Intervista a Persian Pelican, Shijo X e Wrongonyou: gli artisti che rappresenteranno l’Italia al Primavera Pro 2017

Anno dopo anno la programmazione degli showcase del Primavera Pro diventa sempre più importante e di rilievo e rappresenta l’ideale complemento delle attività condensate in questo incontro in cui si riuniscono i principali professionisti del settore musicale. Artisti e band emergenti provenienti da tutto il mondo giungeranno a Barcellona nella settimana del Primavera Sound per esibirsi di fronte a loro e alle migliaia di partecipanti al festival.

Il Primavera Pro 2017 avrà luogo dal 31 maggio al 4 giugno a Barcellona e vedrà la partecipazione di voci eminenti come Bill Drummond (The Justified Ancients of Mu Mu / The KLF), Imogen Heap, Viv Albertine (The Slits), Billy Bragg, il produttore Martin Glover (Youth) e molti altri che nelle conferenze, panel e incontri per i professionisti del settore affronteranno le sfide del presente e del futuro dell’industria musicale.

Ancora una volta l’Italia sarà rappresentata da tre progetti musicali scelti dal Primavera Pro in collaborazione con A Buzz Supreme e Modernista: Persian Pelican, Shijo X e Wrongonyou. Le band si esibiranno sia sul palco Day Pro nel Pati de les Dones del CCCB, con ingresso libero, sia sul palco Primavera Pro dell’area del Parc del Fòrum.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Andrea (Persian Pelican), Laura, Davide(Shijo X) e Marco (Wrongonyou) per conoscerli un po’ meglio e provare a capire con che stato d’animo affronteranno l’avventura che li porterà a suonare all’interno di uno dei festival più importanti d’Europa.

persianpelican

Persian Pelican

Persian Pelican è un progetto di musica folk manipolata geneticamente in cui Andrea Pulcini miscela songwriting americano, indigestioni di cinema iraniano, melodrammi di Douglas Sirk, racconti di carattere onirico e di piccole depravazioni quotidiane. Dopo “These cats wear skirts to expiate original sin” (2008), nel 2010 si trasferisce per due anni a Barcellona dove nasce il secondo disco “How to prevent a cold” (2012). Tornato a Roma inizia un’intensa attività live che lo porta a dividere il palco con artisti come Paolo Benvegnù, Father Murphy, A Classic Education, King of the Opera, C+C=Maxigross e Sylvie Lewis. Non è nuovo nemmeno ai palchi dei festival internazionali, forte della sua partecipazione al Liverpool Sound City Festival.

Ciao Andrea! Mi piace l’idea di definirti il “nostro” Devendra Banhart. Ti fa piacere l’accostamento o non ti ci riconosci per niente e io ho appena toppato la primissima domanda?
Di sicuro è un appellativo che mi fa piacere. Ammetto di aver assunto abbondanti dosi dei primi tre album di Devendra Banhart ancor prima che le piume pellicane crescessero; forse qualche traccia è rimasta. Adesso che hai premuto il tasto del tempo perduto, ricordo anche che nel mio primissimo live feci una cover di “Wake up, Little Sparrow” da Niño Rojo.

Mi spieghi per bene il tuo percorso? Marchigiano di origine, poi ti sei spostato a Roma, Barcellona e infine a Bologna: mi racconti un aneddoto o un particolare che ti ha segnato artisticamente per ognuno di questi posti?
Vengo da un piccolo paesino in provincia di Ascoli Piceno e forse l’ombra degli Appennini ha un po’ segnato gli inizi musicali caratterizzati da atmosfere più cupe. Gli spostamenti sono un po’ dipesi da quelli universitari. Ero (e sono ancora) affascinato dal mondo teatrale e prima ho studiato a Roma, poi ho fatto ricerca a Barcellona ed infine son tornato dalla lupa per laurearmi in Storia del teatro. L’esperienza catalana la ricordo sempre con un sorriso più grande dello Stregatto. Lì è iniziata l’attività live con attitudine molto acustica e bucolica (la band era composta da viola, flauto traverso e percussioni). Allo stesso tempo, il fatto di venir catapultato spesso in sale da ballo di rumba catalana ha contribuito ad aumentare nel sangue l’attenzione per il ritmo e la melodia. L’amore per Roma e la sua grande bellezza difficilmente svanirà. È il set dei miei migliori ricordi musicali e non. Lì ho registrato il mio secondo album, scritto il terzo e conosciuto persone che ancora oggi rimangono tra i miei più cari affetti e migliori collaboratori. Mi manca anche quel tramutarsi in sardina sui bus notturni, le notti bianche per le strade di Roma Est e il non aver ancora imparato per bene a far la cremina sui tonnarelli cacio e pepe. A Bologna ci abito da pochissimo, quindi gli aneddoti sono pochi. Per ora mi sta offrendo una primavera ricca di vibrazioni, lunghe camminate per digerire l’ottima cucina emiliana ed una gran quantità live; l’ultimo degli Heliocentrics, è stato stupendo.

Aspettative sul Primavera Pro? Non sarai solo, perché ora ti accompagna la tua band. Dal punto di vista che riguarda puramente l’esibizione preferisci una dimensione un po’ più intimista, esibirti da solo magari in locali più piccoli, oppure i palchi più grandi tipo quelli dei festival?
Prima di tutto cercherò di godermi a pieno l’esperienza ed ogni singola nota. Le aspettative sono semplici. Cercare di trasmettere la malia di Sleeping Beauty a più persone possibili al fine di impollinare altri paesi europei. Sulle esibizioni, anche se qualche anno fa ti avrei risposto in maniera completamente opposta, ora preferisco di gran lunga i palchi più grandi con numerosa band al seguito. Mi piace quando le canzoni diventano più sanguigne, le code psichedeliche e le camicie sudate.

Il tuo ultimo album, Sleeping Beauty, è stato prodotto da Bomba Dischi, Malintenti Dischi e Trovarobato. Come se la passa la scena folk in Italia secondo te? Sei tornato perché al momento ci sono delle reali opportunità?
Sleeping Beauty è un album denso e nelle sue canzoni racchiude molte confessioni personali. Parla di sogni, non per fare psicoanalisi, ma per sottolineare la loro importanza nella vita quotidiana.
Oltre che per motivi personali, sono tornato soprattutto perché negli ultimi anni ho seminato parecchio in termini di live e non c’è niente di più bello nel raccogliere piccoli frutti su palchi più grandi dopo una lunga gavetta. In secondo luogo ho trovato degli interlocutori, come le tre etichette di cui sopra, che mi stanno aiutando a diffondere il più possibile quello che scrivo.

Per quanto riguarda la scena folk italiana, credo sia in buona salute. Negli ultimi anni ho conosciuto e ascoltato molti artisti e gruppi con i quali sarebbe bello collaborare e contaminarsi in un futuro prossimo, anche per preservare il genere. Reali possibilità di viverci non ne vedo al momento. Ad ogni modo, ci è dato un tempo limitato. Piuttosto che fare l’untore preferisco continuare a creare musica che nasca da una necessità comunicativa forte e riesca a regalare emozioni autentiche, tramutare pelli umane in quelle d’oca, senza impazzire in un’ossessiva ricerca di formule vincenti a livello di mercato. Artisticamente parlando vale la regola do or die. Poi, è chiaro che un minimo di curiosità, ricerca e cultura musicale in più da parte di tutti sarebbe auspicabile.

shijox

Shijo X

Gli Shijo X affondano le proprie radici nel Trip hop ma le variegate influenze musicali a cui sono esposti li rendono praticamente inclassificabili e a loro questo piace parecchio. Di concerti internazionali ormai se ne intendono avendo partecipato al Liverpool Soundcity e all’Open Air Berg. “Odd Times”, il loro terzo album, è uscito il 5 maggio e segna un importante momento di  svolta per via dell’interessante apertura verso nuovi orizzonti musicali.

Già dire di avere delle radici Trip hop in Italia è una cosa un abbastanza particolare. Come vi siete avvicinati al genere e soprattutto come sono nati gli Shijo X? Davide: matrice trip hop sì, c’è. È una cosa che abbiamo sempre ascoltato e ci siamo sempre ritrovati nel genere che ormai è vecchio (ha quasi vent’anni) ma adesso sta vivendo una nuova era, sicuramente noi siamo influenzati da questa cosa. Però abbiamo iniziato a scrivere dei pezzi che erano di stampo Trip hop e ovviamente l’etichetta ci è rimasta dalle recensioni e critiche però a noi sta un po’ stretta perché devo ammettere che il nuovo album si discosta moltissimo da quel genere di sonorità. Io e la cantante (Laura) veniamo da studi classici di pianoforte e canto, il nostro ex bassista veniva dal grunge, ci siamo incontrati ed è venuto fuori il secondo disco.

Avete un nome parecchio insolito. C’è una storia dietro questa scelta?
Davide: Sì il nome ha un’origine ben precisa, l’ho preso da un viaggio che ho fatto in Giappone ormai quasi otto anni fa. A Kyoto sono stato portato in un quartiere pieno di templi, in un distretto che si chiama Shijo (ti confesso che anche io ho dei dubbi sulla pronuncia corretta) e questo quartiere è un melting pot di cose diverse che però convivono tutte pacificamente. Templi antichissimi di fianco a sale giochi, cose di questo tipo. Mi ha colpito molto come immagine e ho pensato che era esattamente quello che volevamo esprimere noi in musica, una cosa un po’ sopra i generi, che racchiude tutte le nostre influenze. La “x” è stata aggiunta dopo, è il collante, la variabile in più.

Un vostro pezzo a cui sono particolarmente affezionata per via di ricordi tipicamente bolognesi è “Bologna by night” che però risale al 2012, invece “Odd times”, il vostro ultimo album, è appena uscito. Vi siete volutamente presi una pausa tra un album e l’altro? Mi sembra di capire che avete tutti delle provenienze diverse e che Bologna in qualche modo vi abbia uniti: in che modo?
Laura: dopo” If a night” abbiamo suonato tantissimo e poi nel 2015 abbiamo fatto delle esperienze all’estero. Abbiamo lavorato su nuovi brani però era tutto un po’ rallentato dall’attività live. L’anno scorso abbiamo deciso di concentrarci sulle registrazioni e accantonare per un attimo le esibizioni. Considera che in quanto gruppo emergente abbiamo delle tempistiche più lunghe: dobbiamo capire che direzione prendere e poi c’è la questione investimento, dobbiamo far saltare fuori i soldi che ci servono. Abbiamo anche avuto un cambio bassista (a Federico Fazia è subentrato Andrea Crescenzi).

Nessuno di noi è bolognese, io e Davide ci siamo conosciuti perché abbiamo studiato entrambi a Bologna ma siamo abruzzesi  come Federico Adriani, il batterista, invece Andrea è di Frascati. Ovviamente abbiamo risentito dell’ambiente bolognese nel periodo in cui stavamo lì! Abbiamo fatto percorsi diversi ma ci siamo ritrovati tutti nel centro Italia, comunque sì Bologna ha avuto un ruolo importantissimo agli inizi del gruppo.

Come avete preso la notizia della convocazione al Primavera Pro? Era un traguardo che avevate in programma di raggiungere?  Se avete già partecipato al Primavera Sound da spettatori avete sicuramente presente le dimensioni del festival. A proposito della sterminata offerta del Parc del Fòrum: meglio l’esibizione al CCCB o al Fòrum?
Laura: la reazione alla chiamata del Primavera non è ripetibile in questa sede! Diciamo che eravamo felicissimi. Il festival è uno dei più importanti al momento e sia io che Davide ci siamo già stati: è una figata, da spettatori  è una cosa incredibile. Suonare in un posto così è un sogno, un punto di arrivo ma anche di partenza. Certo capisco che da spettatore al Fòrum l’offerta è talmente vasta che devi per forza fare fuori qualcosa e a volte capita al palco del Primavera Pro. Però è anche vero che da musicista entri in contatto con un pubblico gigantesco, come target è spaziale e anche dal punto di vista professionale ti insegna tantissimo. Suonare davanti agli addetti ai lavori (dell’industria discografica) è una manna dal cielo, non so se più importante o uguale, diverso diciamo. In entrambi i casi raggiungi persone che altrimenti non riusciresti a raggiungere.
Davide: L’offerta del Primavera Pro è varia, bella e scopri un sacco di cose interessanti perché chi suona al Primavera Pro in quanto emergente è veramente genuino. C’è sempre un po’ di gente davanti al palco e va già bene così. L’intera esperienza è fighissima: abbiamo pensato per quattro anni di presentarci (intendo candidarci per il Primavera Pro) e poi quando abbiamo avuto l’album abbiamo tentato e meglio di così non poteva andare! Siamo super felici e super emozionati.

Le tre scelte del Primavera Pro quest’anno sono cadute su di voi, Persian Pelican e Wrongonyou. È corretto dire che forse è perché siete gli artisti che suonano in maniera più “internazionale”? 
Davide: certo. Le scelte ogni anno sono particolari, poi per il Primavera visto il contesto è proprio una necessità selezionare progetti che hanno una visione internazionale della musica, proprio dando un significato neutro termine. Il nostro modo di suonare non nasce a tavolino, questo è quello che sentiamo e vogliamo fare. Quest’anno è anche bello che ci sia Iosonouncane sul palco del Primavera. Ha fatto un disco pazzesco e ritrovarlo lì, che canta in italiano, è un po’ un traguardo. Gli altri due gruppi li conosciamo e apprezziamo. Per esempio quando abbiamo sentito per la prima volta “Killer” di Wrongonyou sembrava straniero, quasi islandese, comunque siamo rimasti molto colpiti dall’eleganza di quel brano. Conosciamo anche Persian che è molto interessante e condividere l’esperienza con questi due artisti è sicuramente molto bello.

wrongonyou

Wrongonyou

Marco Zitelli, cantautore romano classe 1990, riesce a fondere folk, elettronica ed una voce unica per intensità in un progetto dal grande respiro internazionale. A fine 2016 ha pubblicato il primo EP per Carosello Records, “The Mountain Man”, che ha già superato i confini italiani, permettendogli di esibirsi in diversi festival europei e facendo entrare il brano ‘The Lake’ nella colonna sonora della serie ‘Terrace House: Aloha State’ su Netflix Japan.

Hai solo un Ep all’attivo ma stai già facendo giri immensi! Anche se a dire il vero li avevi già fatti prima del 2016: vorrei mi raccontassi di come sei capitato a Oxford perché mi sembra troppo bello per essere vero. Cosa facevi in quel periodo della tua vita? Avevi già deciso di dedicare tutto il tuo tempo alla musica?
Per fortuna le cose stanno andando alla grande e mi auguro che il meglio debba ancora arrivare, anche se mi sono tolto già parecchie soddisfazioni!  Avevo caricato un brano su Bandcamp e ad un tratto mi sono ritrovato una sterlina sul conto, poi una mail: era di un certo professore di Oxford che insegna Tecnologia del suono che mi invita a passare da lui due settimane nel suo studio per registrare un demo. Una volta lì scopro di trovarmi nello stesso posto dove hanno cominciato a suonare i Radiohead e che senza saperlo sto usando l’amplificatore di “The Edge” degli U2. In quel periodo della mia vita non sapevo cosa fare, ma l’esperienza di Oxford è stata decisamente la scintilla che ha acceso il motore di questa avventura!

In quello che fai si sentono un po’ di Justin Vernon, Paolo Nutini, Sohn, Manchester Orchestra e per certi versi anche gli M+A. Dietro alla produzione musicale ci sei solo tu? La tua musica suona molto poco “romana”. L’obbiettivo è proprio renderla più internazionale possibile?
Le canzoni le scrivo sempre da solo, dove capita e quasi sempre chitarra e voce. Per quanto riguarda le produzioni ho avuto svariate esperienze, nel senso che quando ho cominciato ad arrangiare le mie canzoni non avevo le idee molto chiare. Ho cominciato a suonare in saletta insieme al batterista e il bassista che mi hanno accompagnato nei live finora (Franz Aprili ed Emanuele Triglia), poi in studio l’EP “The Mountain Man” (Carosello Records) è stato arrangiato da me e Flavio Zampa, prodotto da Kate Creative Studio e registrato a IMPRONTE RECORDS. Il mio primo disco, che uscirà prossimamente, è stato prodotto da Michele Canova. Anche quello lo abbiamo arrangiato insieme e registrato nel suo studio a Los Angeles.  Comunque sì, l’idea è quella di andare fuori, ma porto Roma e l’Italia nel cuore e voglio affermarmi anche qui.

A proposito di cose pazzesche che ti sono successe: il tuo brano “The Lake” è finito in un episodio della serie Terrace House: Aloha State di Netflix Japan. Come hanno fatto a trovarti? Dopo questa “collaborazione” sei diventato fan della serie?
Inizialmente non sapevo dell’esistenza di questo programma! La notizia che la mia musica è arrivata in Giappone mi ha fatto sorridere non poco. La cosa bella e che ancora non ho detto è che praticamente si sono presi tutto l’EP, quindi anche in altre puntate sentirete i miei brani. Non ho ancora avuto modo di guardarlo, ma spero di riuscire presto.

Il Primavera Pro è sicuramente un bel banco di prova perché gli artisti si esibiscono anche davanti agli “addetti ai lavori” dell’industria musicale: cosa ti aspetti da questa esperienza? Quando ti hanno detto che eri stato scelto per il Primavera Pro come hai preso la notizia?
Beh, direi che l’ho presa bene! Ero molto emozionato quando me l’hanno detto, del resto si tratta di partecipare a uno dei maggiori festival in Europa e nel mondo. Sono molto fiero del mio lavoro e del lavoro che sta facendo il mio team e una delle sensazioni che ho provato maggiormente è stata quella di un enorme senso di gratitudine per tutte le cose e i giri che sto facendo. Sono molte ancora le cose che devo fare, che al momento non posso svelare, ma non vedo l’ora di poter condividere. Non posso che essere grato e andare avanti a più non posso!

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Anello di congiunzione tra le Spice Girls e Burzum fin dal 1988

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