Foto di Matteo Scalet | Articolo di Costanza Garavelli
Tutto ha inizio passando il ponte, che sembra portare in un’altra dimensione e ti fa sentire un po’ come Alice, quando attraversa lo specchio. Scoppia di bandiere, il ponte, ed io seguo la prima ondata dei 530 mila spettatori da oltre 100 nazioni registrati per questa ventisettesima edizione con ore e ore di viaggio alle spalle, ma senza un lamento, solo occhi sbigottiti e sguardi confusi ed eccitati. I campeggi a pagamento regalano qualche comfort in più, e nonostante la soluzione sia un po’ wild, sono assolutamente ben organizzati e adatti al mood del quinto festival più grande del mondo. Non appena dentro l’enorme sovrastimolazione mi colpisce come un pugno, tra colori, volti, abiti incredibili sfoggiati come bandiere di un’identità finalmente espressa in tutta la sua grandezza, e, naturalmente, la musica.
Il Main Stage – palco principale tra i più di 60 presenti sull’isola – offre questo pomeriggio Michael Kiwanuka con le sue note soul/funk: sembra essere su un altro pianeta. Occhi chiusi, testa buttata indietro, lui suona per se stesso, completamente immerso in un’intensa dimensione interiore. Dopo l’iniezione di soul, Kiwanuka cede il passo a mademoiselle Jain, che sembra pronta a tenere un corso di ginnastica con tutina futuristica e la consolle in un luminoso braccialetto robotico. Uno spettacolo dai toni pop, totalmente aerobico. Ma in questa prima sera, il centro del mondo è Ed Sheeran. Centomila persone per lui. Tutti. Tutta l’isola è schiacciata, aggrappata, stretta, spinta verso di lui. Sono disposti a calpestarti. Tira le fila da gran maestro, con quell’espressione ingenua di chi non sa perché è finito lì, e come uscirne. Le signorine sono in visibilio. Lui le manda in orbita con un riff appena accennato, dilatando il romanticismo e trascinando ogni acuto alla disperazione. Non solo le signorine perdono la testa, ma chiunque, saltando e urlando con le mani nei capelli. Chiude la sua performance con un inaspettato sclero quasi rap, tirando fuori tutta quella grinta che il coinvolgimento struggente dei precedenti pezzi in chiave romantica non permettevano di vedere. Finisce il concerto, la gente si allontana barcollando ubriaca di troppe cose in troppo poco tempo, con le orecchie che fischiano. E lì, a dieci metri dal centro nevralgico del romanticismo scozzese, inaspettatamente, imprevedibilmente, i Les Commandos Percu, arrampicati su un’installazione di poco più che carta pesta rappresentante una montagna. Quattro postazioni di batteria, quattro batteristi e due pirotecnici. Sembrano usciti dall’inferno e che si siano portati dietro tutto quello che di divertente c’è. Perfetta sincronia tra i sei, che mettono in piedi uno show metal/elettronico di batteria in questa dimensione vulcanica che prevede un arsenale di fuochi d’artificio e girandole fiammeggianti sproporzionate. Il risultato è una bomba nucleare di energia pura. La dose di festival del primo giorno mi ha travolto e saziato, lasciandomi però impaziente nell’attesa delle prossime giornate.
Il tempo il giovedì è più tetro, nuvole basse e freddo, ma finalmente si respira. La mattina l’intera isola fa sentire atmosfere completamente diverse, tutti seguono un flow molto più lento, che sotto questo cielo grigio sembra ancora più lento. In giro facce sconvolte, occhiali da sole anche dove non servono. E comunque musica. Rallentata, più bassa. Sembra dilatata nello spazio. C’è qui e là qualche superstite che capisci essere ancora in giro dalla sera prima, che non saprebbe dire dove si trova neanche usando google maps. Sei allo Sziget, amico.
Nel pomeriggio, sul Main Stage esplodono i Franz Ferdinand, che nonostante la pettinatura discutibile di Alex Kapranos danno il loro egregio contributo all’indie rock contemporaneo con una scarica adrenalinica che tiene il pubblico appeso al palco, e ne controlla ogni azione. Con due parole fa accucciare 20.000 persone per poi farle saltare come micce al giusto giro di chitarra ben assestato. Scaldano il palco e il pubblico, preparandolo per Mr. Richard Ashcroft. Lui arriva, senza deludere le aspettative di chiunque di trovarsi di fronte ad uno spaccone pieno di sé che sembra farti un favore a trovarsi lì. È bello da morire, consumato e stronzo. Occhiali da sole, faccia da sberle e un sound inconfondibile. Attacca riportandoti ai Verve degli anni Novanta, e l’età media del pubblico si alza esponenzialmente e chi i Verve li ha vissuti ha un crollo emotivo. Esce anche un raggio di sole, sulle note di Drugs don’t work, che spruzza un po’ di tramonto rossastro su quel miscuglio di mondo che se ne sta lì, in questa dimensione dilatata e intima. L’ex leader dei Verve conclude la performance con una piazzata in perfetto stile rock star esaurita, lasciando tutti a bocca aperta ed ancora più innamorati. Lentamente, l’area di fronte alla titanica impalcatura centrale si svuota lasciando spazio alla sera che cala sull’isola e ne cambia i connotati. Si perde facilmente la strada e gli stand del cibo hanno colori che sembrano fuoriuscire mescolandosi agli odori. Dopo i grossi nomi del Main Stage, i piccoli palchi ospitano delle perle rare. Sul fine serata vieni fagocitato da qualche serata trash cantando Wannabe senza nemmeno sapere come fai a ricordarti ogni singola parola del testo, mentre attorno a te l’intera isola sembra che sia nata per cantare le Spice Girls.
Qui funziona che la mattina ti può capitare tranquillamente di camminare tra le bancarelle ammassate una sull’altra e, tra un paio pantaloni thai e gli incensi alla mirra, puoi trovarti faccia a faccia con Xavier Rudd, a petto nudo, scalzo, che guarda interessato un marsupio con un ricamo hippy multicolor. E lui è come te lo immagini, che ti sembra di conoscerlo da sempre, ti viene voglia di abbracciarlo. Fa due chiacchiere con te volentieri, se lo incontri, e nelle foto sorride e ti stringe come un vecchio amico. La stessa cosa la vivi quando sei lì, in mezzo ad altre migliaia di persone, sotto il palco A38 che ospiterà oltre a lui altri grandi nomi come Yungblud, James Blake, The Blaze, Chvurches, Grace Carter, IAMDDB, Idles, Ocean Alley, Superorganism, Jungle, Richie Hawtin e molti altri. Hai la sensazione netta di essere in procinto di fare quattro chiacchiere con un tuo confidente, mentre lui svuota i polmoni e l’anima dentro al lungo collo laccato di un digeridoo più grande di lui. E parla, Xavier, parla guardando negli occhi ognuno di noi. Ti parla attraverso un’armonica che strappa la pelle, e con ritmi tribali che hai la sensazione che escano dalle tue stesse ossa. E poi, con un pezzo strumentale digeridoo-batteria da panico, completamente autogestito (performance fisica da campione olimpionico) riscatta il quarto d’ora passato sotto il Main Stage su cui Martin Garrix fa esplodere le sinapsi a più di 100.000 ragazzine in botta ormonale.
Scoppia in un boato, il popolo sotto al palco, quando attacca l’armonica di Follow the sun, al quale Rudd sembra aver voluto dare alla fine poca importanza, buttandola lì quasi per caso, mentre ai suoi piedi si svolgeva un evento di commozione generale da percepirla fisicamente. Dopo un concerto così non reggi altro. L’unica cosa da fare è barcollare fino alla Sziget Beach e crollare godendo della sensazione di essersi allineati con il mondo, lasciandosi impastare la mente da un flow psy-chill ‘sticazzi che è meglio di una sedazione. L’intera notte che hai davanti non fa nessuna paura, intorno a te sei in famiglia, condividi quello che hai, anche fosse solo il sonno. Il confine con il corpo degli altri si ridefinisce, lo spazio vitale ha altri significati qui, ti puoi ritrovare con i calzini sporchi di quello a fianco praticamente addosso, senza che questo ti dia poi così fastidio. Infondo sei nel bosco fatato, sotto enormi fiori di stoffa e alberi abbracciati da gente presa bene e da lucine colorate.
Dopo quattro giorni segui il flow. Trovi il tuo ritmo e ti ci muovi dentro come se fosse quello da sempre. E tu, inesorabilmente, inizi a farne parte. La pretesa di essere puliti ormai è un lontano ricordo, ma non c’è nulla di male, non pesa. Dormi quando puoi, mangi quando hai fame, introietti tutta la musica che conosci e anche quella che non conosci. Il mondo intorno si muove come se fosse parte del tuo, anche quando non ci si parla. È una fusione di mondi distanti, in fondo. Non c’è spazio per la realtà quotidiana allo Sziget. Quello che fai, alla fine, è reinventare la tua identità su nuove basi relazionali, scoprendo che i limiti della tua capacità di adattamento sono molto più ampi di quanto si possa pensare. I quattro giorni sono un punto di passaggio importante, sono quel momento in cui, da ospite, diventi padrone di casa, sono il tempo tecnico necessario per amalgamare te stesso all’ambiente, imparando a gestirlo.
La serata non può che finire così, il quarto giorno, con i The National, io seduta nel prato davanti al main stage, lost in the wave. E ti sembra di scivolare dritto nella gola di Matt Berninger, dondolando tra le note scure e intense che produce. L’atmosfera comunitaria che regna incontrastata sull’isola ti fa voltare elargendo sorrisi complici a chiunque, indipendentemente da età, sesso o paese di provenienza. A dirla tutta, su quest’isola, in questa settimana, si respira un clima ambiguo: al tempo stesso avviene un fenomeno di fortificazione ed esasperazione dell’identità individuale e di sua totale perdita. Ognuno qui ha la possibilità e ne sente un bisogno quasi fisico, di esporre al mondo quella parte di sé normalmente tenuta quieta, perché rispetti le norme del decoro imposto dalla società. Contrapposta a questa espressione spinta al limite, avviene la perdita del proprio io intero, completo di radici, provenienza e storia personale. Non importa chi tu sia normalmente, da quale paese arrivi e la divisa che devi indossare ogni mattina quando vai a lavorare, se ne hai una. Importa chi tu sei oggi, qui, finché qui resti. Importa quello che di te vuoi spremere fuori. Sostanzialmente non importa se sei un grizzly di 100 chili completo di barba e tutto, puoi tranquillamente coprire la tua barba di brillantini azzurri e metterti un tutù lilla e fare due belle trecce alla chioma. Ti ameranno.
La Sziget Beach nel suo Chill Garden, ospita ogni mattina il risveglio dell’isola. Nel senso vero del termine, visto che c’è chi decide di dormire lì, la sera, magari con un’indigestione di suoni in corpo che deve smaltire. E prontamente la mattina, dopo un tortino vegano ai semi di papavero e uno smoothie con dentro tutta la frutta che riesci ad immaginare, si può ad esempio fare yoga. Magari vestiti da Babbo Natale. E c’è lei, l’insegnante, che si contorce e si distende senza la pretesa che tu riesca a fare lo stesso, ma con la buona intenzione di farti allungare tutti quei muscoli che ormai, dopo cinque giorni a suon di 20 chilometri giornalieri (passare da un palco all’altro non è affare semplice), ti sembra che siano annodati su loro stessi. Puoi anche imparare a fare i massaggi tibetani, o semplicemente restare distesa lì, sulla spiaggetta, con i piedi a mollo nel Danubio un cocktail in mano e un po’di chill-out nelle orecchie. Si avvicinano inesorabilmente le ultime, ambitissime, giornate del festival, ed è necessario prepararsi. L’isola brucia nei 36 gradi rilevati e nell’elettricità prodotta dalla popolazione dell’isola, in crescita giorno dopo giorno, ricaricata sistematicamente dal susseguirsi inarrestabile degli show che i palchi ospitano, ora dopo ora, giorno dopo giorno, divenendo il battito cardiaco che batte nelle arterie pulsanti del festival. Questa sera il Main Stage ospita Post Malone, che arriva, infuocando il palco e il suo ampio pubblico in pochi secondi, scuotendosi, saltando, sudando, dandosi al pubblico. Inchioda tutti lì, quel ragazzino che ragazzino poi tanto non sembra, con quella sua energia che sembra gli sia assolutamente impossibile imbrigliare, scalciandosi e dimenandosi. E come al solito un’altra alba ritorna, sull’isola di Obuda, incasinata di suoni.
Il Light Stage, fuori dal campeggio Alternativa, incontra le situazioni più disparate oggi, generalmente occupato da artisti italiani. Nel pomeriggio infuocato del penultimo giorno divampano i Pop X, gruppo trentino, di fronte ad un pubblico che di controllarsi non ha la minima intenzione. Sono loro i primi a dirigere l’esasperazione eccentrica, suonando in mutande, sputando in faccia alla folla il loro pop elettronico come fosse una barzelletta, mischiando i suoni a testi sconclusionati e geniali, esagerando l’utilizzo dell’autotune in una forma magistrale, mentre una buon’anima ci annaffia con una pompa scatenando un pogo infangato e delirante. L’elettricità della loro performance resta attaccata addosso a chiunque li abbia seguiti per il resto della giornata, in attesa del gran finale, della star indiscussa di questo lunedì 12 agosto, Florence and the Machine. Cala la sera e aumenta la tensione attorno al Main Stage, dove la regina della serata si esibirà, preceduta dagli altrettanto attesi Catfish and the Bottlemen, che scaldano il palco investendo svariate centinaia di persone con la combinazione lanciata a mille dell’indie-rock e della presenza scenica della band che non molla un secondo. È il momento di Florence Welch.
Ad attenderla, fans adoranti a perdita d’occhio. Fa la sua entrata, come una fata, volteggiando eterea nelle trasparenze del suo lungo vestito di organza. Non si ferma un attimo, si scuote, sinuosa, fluttuando sul palco, ipnotizzando migliaia di cuori, con il suo mix di energia e sensualità. Ma non le basta godere dal palco dell’amore incondizionato delle migliaia d’occhi adoranti sotto di lei, no, e scivola giù dalla pedana, come in un volo, lanciandosi sulle transenne, accendendo una connessione incalzante con chiunque sia lì, per lei, di fronte a lei. Canta, abbracciando fisicamente il suo pubblico venerante, sulle note di Delilah, intrecciando le dita a quelle tese verso di lei, mano nella mano, occhi negli occhi, senza paura, riuscendo a creare un’intimità onirica con migliaia di anime perse, commosse. La chiede, l’intimità, senza mezzi termini, pregando di far sparire per un momento quei diavolo di telefoni per godere dell’attimo solo nostro, persi nella bolla, sconnessi dal mondo, chiede di essere solo suoi. È così che dirige il concerto, la dama con le fiamme nei capelli, alternando potenza e delicatezza, dei suoi brani e di se stessa. Chiude lasciando tutti persi in un sogno, che non sarà facilmente dimenticabile.
Clicca qui per vedere tutte le foto dello Sziget Festival 2019 a Budapest (o sfoglia la gallery qui sotto).
Il cielo dell’ultimo giorno è plumbeo, gonfio e fa paura. Dopo una settimana bollente ed impolverata si prevede un finale da purgatorio, completo di vento forte e temporali. Tutto ciò non abbassa di un grado il fermento della grande famiglia isolana per i nomi previsti dalla line-up per il gran finale. Sotto la gigantesca impalcatura centrale c’è movimento fin dalle prime ore del giorno, per coloro che hanno deciso di aggiudicarsi con le unghie e con i denti un posto in prima fila, a costo di non mangiare, bere o qualunque altra cosa per tutto il tempo di attesa. Ormai lo Sziget è casa. Sembra di essere qui da sempre ed è impensabile l’idea della sua conclusione. I due mondi che offre, la notte ed il giorno, animati dai suoi più di mille artisti, si sono fusi in una perfetta armonia di giochi di luce, tramonti ed albe, ritmi stravolti e appaganti, eccessi necessari, storia, contemporaneità, tumulto, espressione di valori e coinvolgimento attivo nel desiderio di stravolgere un mondo senza speranze, con la speranza. Si prodiga questo Sziget anche in senso ecologico: si risparmiano 600.000 cannucce e più di un milione e mezzo di bicchieri usa e getta, in questa edizione. Il senso di libertà che si respira, dalla prima ora di permanenza in questo luogo magico, così nel suo ultimo giorno di vita, è ormai concreto, irrimediabile e irrinunciabile e oggi più che mai sentito. La giornata è un gigantesco countdown teso verso le 20:30.
L’isola ha cambiato aspetto, amalgamandosi alle anime rinnovate dei suoi temporanei abitanti e c’è quiete, nella grigia mattinata, c’è quella quiete sommessa tipica, prima della tempesta. L’escalation comincia subito col botto sul Main Stage con Frank Carter and the Rattlesnakes e Johnny Marr (ex chitarrista degli Smiths), che danno il loro notevole contributo alle ultime ore di questo Sziget, lasciando poi il testimone ai Twenty One Pilots, che prendono possesso della scena con incredibile tracotanza, in un tumulto di fluorescenze, piromania e senso di onnipotenza, abilmente cuciti sul sound inconfondibile del duo, che, per dare un’idea, conclude con un Taylor Joseph arrampicato sulla torre dello Sziget.
Ma il bello deve ancora venire. È il grande giorno, ed è il momento di Mr. Dave Grohl. Anche il cielo sembra aver tenuto le sue nuvole cariche di pioggia sospese, in attesa, ammutolite, nonostante le previsioni infernali. Allo scoccare delle 20:30 nelle viscere dell’isola si propaga il sussulto del suo cuore che batte al ritmo della storia della musica. Se ne escono così, i Foo Fighters, senza perdere un attimo, come se quel palco fosse casa, chiamando a raccolta l’esercito di fronte a loro, sparando fuori senza esitazioni i primi tre dei loro grandi successi All my life, Learn to fly e The Pretender. Nelle due ore e mezzo che seguono, non c’è tregua: è un susseguirsi di performance, di emozioni, di vene che pulsano, di gole che stridono. Noi, sotto, mangiamo chili di polvere, ma non ce ne frega niente. La magia della serata, però, non è solo incapsulata nelle violente rullate di Taylor Hawkins o nei riff nostalgici di bassi e chitarre, no, la magia che c’è questa notte è la complicità tra Grohl e Hawkins, che si divertono sul palco come due adolescenti nei banchi in ultima fila, con la differenza che qui ci sono centinaia di migliaia di persone a divertirsi con loro. La magia è la voglia evidente del frontman di vederci bruciare della sua stessa carica quando urla “Do you love rock’n’roll? I fucking love rock’n’roll!”; ma la magia che più di ogni altra ha mosso qualcosa sotto la pelle di chi ha saputo coglierla, è stata la sfumatura nello sguardo innamorato di miss.
Violet Grohl, sul palco, nei cori, in jeans e maglietta dei Nirvana e mano sul cuore quando canta, nel momento in cui il padre la presenta al pubblico. Uno sguardo conosciuto, umano, innamorato, libero da ogni maschera, quello che ogni figlia dedica al padre fin dal principio, che nulla centra con l’essere rock star, aver fatto la storia della musica ed essere di fronte al mondo. Uno sguardo che li riporta in mezzo a noi, a tutti i padri e a tutte le figlie, senza distinzioni e proietta noi in una bolla d’intimità, concessa per qualche secondo, in un dono prezioso.
Ecco, questa è la magia dei Foo Fighters, la ragione per cui un loro concerto dal vivo è imperdibile: perché ogni canzone è una reinvenzione della band, del mood, delle emozioni trasmesse, onda su onda, nota su nota, come quando l’ex batterista dei Nirvana decide che l’eroe della serata è il ragazzo in carrozzina, fluttuante sul mare di gente che lo regge sulle mani, e lo vuole sul palco, insieme alla “bubble girl”, ragazza nel pubblico, che dalla transenna si ritrova a soffiare le sue sfere opalescenti al fianco di Hawkins per l’ultimo pezzo Everlong, chiudendo la serata in un abbraccio commosso, il fischio degli ampli e la pioggia, che come un sipario inizia a cadere leggera, perfetta, sugli ultimi indimenticabili attimi di questo Sziget 2019.
Clicca qui per vedere le foto della gente dello Sziget Festival 2019 a Budapest (o sfoglia la gallery qui sotto).
