Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
“Bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.”
Questo lo affermava parecchi anni fa Gabriele D’Annunzio, poeta dalla visione alquanto energica rispetto al ruolo dell’artista nel contesto sociale e politico che vive. Il concetto sembrerebbe applicabile anche al “Riot Days” del collettivo post punk russo Pussy Riot, sotto la regia di Yury Muravitsky (direttore artistico del Teatro Taganka a Mosca), andato in scena ieri sera presso il Teatro degli Arcimboldi di Milano. Unica data italiana della tournée di uno spettacolo già portato sulle scene di altri paesi europei su cui il produttore Alexander Cheparukhin, la frontgirl autrice e attivista Maria “Masha” Alyokhina e socie lavorano dal 2016, data (per caso?) simbolica per l’emisfero al di là del confine russo, è stato uno spettacolo-sorpresa, di cui le stesse Masha e colleghe hanno voluto anticipare poco, atteso con la curiosità di un pubblico in parte milanese, in parte russo e ucraino, pronto in tutti i casi, anche a prendere acqua dalle artiste.
Premessa: quanto seguirà sarà una valutazione di quanto visto sul palco. Del resto, le Pussy Riot non hanno bisogno di troppe presentazioni. Nascono e si sviluppano come progetto politico ben preciso: anti-Putiniano, femminista, rivoluzionario, oggi ancor di più pro-Ucraina (i proventi di biglietti e merchandising andranno a supportare una raccolta fondi) e pro-LGBTQ+, inteso a diffondere messaggi e contenuti ben definiti, ribaditi con chiarezza già dalle prime battute: “vogliamo fare un film sulla rivoluzione”. La novità di Riot Days, libro che come anticipato in una breve presentazione da Cheparukhin stesso ha oggi trovato un editore in Italia per la traduzione (è disponibile solo in inglese), è la forma con cui questi messaggi vengono condivisi con il pubblico, e soprattutto quale.
Siamo di fronte a un palco di teatro, come dirà Cheparukhin, scenario inusuale ma sembrerebbe necessario. C’è una tavola coperta di rosso al centro, in fila in trincea davanti a un pubblico seduto ci sono loro, a partire da Diana ‘Kot’ Burkot, in stampelle, alla batteria e programmazione, Olga Borisova, Nadia Tolokonnikova, Masha e la sassofonista Taso Pletner. Gli elementi musicali accompagnano quella che è una vera e propria mise en piece – o en art, per rimanere sulla metafora dannunziana – della storia recente del collettivo a partire dal concerto punk anti-Putin nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca del 2012, e di quanto ne è seguito poi, arrivando quindi al processo fino ai 22 mesi di detenzione in isolamento in Siberia sino alla liberazione. I capitoli della saga si sono susseguiti raccontati, rigorosamente in russo (tradotto nei sottotitoli), in un parlato da reading accompagnato da una base incalzante e dalla batteria di Kot oltre che dalle immagini a tutto schermo della Piazza Rossa, di video registrati da telefonini, nomi parole volti scanditi per capitoli e regole per la fuga perfetta da Fight Club scritte in caps lock bianco su sfondo nero – secondo la migliore pratica tarantiniana. Non sono mancati i momenti più strettamente musicali “storici” con Putin Will Teach You To Love Your Motherland e la “preghiera” Virgin Mary Put Putin Away, tutti in ogni caso immersi perfettamente nella narrazione, in un testo che si snoda da inizio a fine come un’infinita arringa ginsberiana puntellata di citazioni e immagini che fanno sembrare Masha un’Antigone incappucciata di Brecht.

Non un concerto quindi, una performance, in cui tuttavia è stato faticoso trovare l’anima punk dell’esibizione – per quanto Cheparukhin ci inviti a mantenere questo come approccio, è difficile farlo dalle sedie di un Teatro italiano; anche la traduzione in sottotitoli, necessaria per seguire lo spettacolo, ha rallentato gli spiriti anche dei fan più accaniti, che comunque erano certi di non trovarsi un tradizionale, per quanto esuberante, concerto delle Pussy Riot.
Nell’economia del progetto, certo di impatto visivo per lo spettatore, sembra cogliersi l’intuizione del collettivo russo secondo il quale per parlare all’Occidente democratico e progressista sia utile tradurre la genuinità dell’impeto di manifestazioni anticonformiste e controverse, come la punk preghiera, in forme d’arte convenzionali come una piece teatrale (se si può definire tale). Il risultato è interessante: quello che viene raccontato a sprazzi di immagine, in pochi versi sferzanti degli ultimi anni vissuti dalle Pussy non è una storia semplice, segnata da fughe e episodi di violenza, anche se lo spettacolo sembra paradossalmente, al netto delle urla teatrali, quasi attutire questo aspetto.
Quello che si riesce a mettere perfettamente in luce, e che al contrario l’anarchia del punk suonato non riesce a delineare spesso con chiarezza cristallina, è l’aspetto della violenza psicologica che le Pussy ma in generale le donne subiscono quando sono al centro di azioni che le discosta sensibilmente dal loro ruolo tradizionale nella società. Il teatro esalta come sale l’anima nichilista delle Pussy e si addentra in piccole parabole epifaniche. Tra gli episodi tratteggiati nel reading del capitolo sulla detenzione in isolamento c’è il ricordo di un biglietto lasciato da una guardia a Masha al giorno del rilascio dalla prigionia: “Spero che tu possa vivere la felicità semplice delle donne”. Non serve essere critiche massime del patriarcato né essere lettrici di Piper Kerman per percepire l’amaro in bocca che certi auspici, per quanto confezionati con sincero affetto, sono in grado di lasciare: è in queste situazioni che è impossibile non scoprirsi femministe.
In questo la traduzione in prodotto teatrale ha effetto, al netto delle limitazioni dello stesso (forse limitando l’empatia), le Pussy Riot hanno l’intuizione corretta – non a caso Cheparukhin cita all’inizio il caso del disegno fallico del collettivo Voina su un ponte a San Pietroburgo e di come questo sia valso non una condanna ma bensi un premio d’arte. D’altra parte, lasciano lo spettatore con un dilemma esistenziale: la nostra sopra menzionata società occidentale democratica e progressista, protetta dal mercato unico e valori europei ci ha reso capaci di percepire l’eccezionalità di situazioni in cui l’esercizio di funzioni oggi scontate come “avere un opinione” può essere perseguito principalmente dal comodo del nostro posto numerato, piuttosto che dinanzi al fatto compiuto? Alla fine, lo scenario può pur imborghesirsi, ma le Pussy Riot sono sempre loro, artiste che incedono nella vita adottando soluzioni di sopravvivenza ontologicamente punk, basti ricordare che Alyokhina è arrivata in Europa fuggendo travestita da rider e senza cellulare. Sono sempre loro nell’appello finale al pubblico sul conflitto ucraino anticipato da un intero “canto” sui fatti di Bucha (in una giornata conclusasi tra l’altro positivamente per l’Ucraina), a sorreggere gli striscioni portati dal pubblico: non si è mai perso l’oggetto, mai dimenticato il fine – è così che opera un collettivo. E’ lo spettatore che è cambiato, o forse no, è sempre quello che, oggi nella cornice forse troppo elegante del Teatro degli Arcimboldi, guardava su You Tube i fatti di Mosca. In ogni caso, l’arte ha una misura temporale, anche nel raccontare principi base: capiremo solo poi i risultati di questa nuova visione punk.
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