“I insist upon my right to be multiple”
Così recita “also also also and and and”, decimo brano e giro di boa di græ, album dell’anno o comunque uno dei più belli, sfornato a cavallo di una pandemia da Moses Sumney. Totalizzante e complesso, diviso in due uscite, una il 21 febbraio e l’altra il 15 maggio, sembra arrivare da un altro pianeta, come i video che hanno accompagnato ogni singolo e come l’artista stesso, impegnato nella sua personalissima crociata contro le etichette. Definire Moses Sumney non è facile, solitamente lo si descrive così: veste sempre di nero, ha un’incredibile estensione vocale, una presenza live incontenibile e una vita affascinante influenzata anche dal fatto di essere cresciuto tra la California e il Ghana.
“græ” è tutto quello che “Aromanticism”, il primo lavoro, ci teneva nascosto. Multiforme ed estroverso, se rivela la sua vulnerabilità lo fa in maniera estremamente consapevole, rifiutando gli stereotipi, interrogandosi su quesiti universali, surfando sulla nebbia dell’incertezza e accogliendo ogni singola sfumatura di verità. Non esistono assoluti e non esistono generi, per il momento solo all’interno dell’album di Moses Sumney, poi chissà.
Insieme di soul, neo jazz, pop e rock progressivo, sembra essere l’espressione massima di quella molteplicità in cui l’artista riesce a riconoscersi e la scelta di dividerlo in due parti lasciando quasi tre mesi di respiro, di pausa, di spazio per riflettere e assimilare i contenuti all’ascoltatore si rivela una scelta vincente.
Il viaggio che porterà all’accettazione di una vita vissuta da “isola” o in isolamento (tema azzeccatissimo di questi tempi) all’inizio sembra denso di dubbi che però si scioglieranno traccia dopo traccia grazie a testi pieni di momenti di altissima poesia. “Cut me” si chiede “if there’s no pain is there any progress?” riconoscendo al dolore un ruolo fondamentale, da protagonista, senza mitizzarlo; “In Bloom” sviscera la questione relazioni platoniche in modo magistrale (“as the night become dawn, you and I become one, you take my face in palm and call me the morning sun”), “Virile” rifiuta il ruolo stereotipato dell’uomo nella società odierna (in sintesi: patriarcato levati) ma è “Me in 20 years” la vera bomba (prodotta da Oneohtrix Point Never): diventare la propria paura più grande, sopravvivere e poi spingersi ancora più in là. “Lucky me” sprona finalmente a riconoscere il proprio valore e il diritto di essere amati anche se si è incompleti in maniera tipicamente frank oceanesca e “Neither/Nor” droppa il nocciolo della questione senza affannarsi nel cercare soluzioni: “I’m not at peace with dying alone but I’m not at war either”. Moses Sumney non dà risposte ma si limita a dare una mano con la formulazione delle domande e per questo a fine pandemia gli verrà costruito un monumento.
“and so I come to isolation”, “Bless me” e “before you go” compongono il trittico di chiusura riassumendo il messaggio dell’intero disco: la consapevolezza di essere qualcosa di indefinito è forza, l’omologazione non è contemplata, l’isolamento e la solitudine sono a loro volta colori, sfumature di grigio che brillano come la più splendente tonalità di blu.
