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HIDE VINCENT – Hide Vincent

hide-vincentSì, anche io mi sono chiesta perché si chiami Hide Vincent.
Avrei potuto benissimo interpellare il diretto interessato (aka Mario Perna) – o chi per lui – per farmi spiegare l’origine del suo nome d’arte, oppure condurre adeguate ricerche sul web a proposito. Ma ho deciso che no, che anche se vado fuori strada, voglio raccontare io la mia storia su Vincent.

Vincent ha un legame unico con lo spazio che lo circonda: odori, suoni, vibrazioni. Riesce a sentire ogni atomo della natura e a connettersi all’anima radiosa e oscura delle cose. Si guarda attorno e… vede. Ha anche paura, e lo esprime con infinita dolcezza ed innocenza. Vincent è cresciuto, ma si “nasconde” sempre accartocciato dentro un uomo-bambino. Non ce ne sono tanti di Vincent in giro; forse è per questo che si sente un po’ solo e decide di raccontare le sue emozioni nel suo omonimo album di esordio, in uscita il 27 gennaio 2017.

Hide Vincent si svela con Father, dove ce lo immaginiamo fare people watching in una piazza affollata di gente che sfuma. Qui è tangibile l’effimero, il peso delle cose non dette e delle scelte sbagliate (“What’s the price for walking backwards through time?”); ci regala un’atmosfera stile “fine puntata di Scrubs” nel primo singolo estratto dall’album, Blood Houses (guarda il video pubblicato in anteprima su Rockon), quando JD ricollega tutti i momenti e fa la morale o il dottor Cox si addolcisce su un tappeto di archi e delle carezze di batteria.

Sono i ricordi a scandire come un metronomo il tempo di Things I Did Today: orecchiabile e ariosa ballad dove le rinunce, le scelte sbagliate, i “cosa sarebbe successo se”, anche a distanza, colpiscono dritto al cuore e dove le pennellate di violoncello tramutano in un collage di visi e vecchie polaroid. Quasi lo si intravede ora, calpestare foglie autunnali sotto la pioggia e alzare gli occhi al cielo in White Sun, un abbraccio acustico che si sviluppa in un gioco di note alte e basse e ricami di chitarra. Ed eccolo, catapultato in una giungla di cemento in Black Poetry, travolto da un’ondata di zombie senz’anima (“You have got the darkness in your eyes”), alla disperata ricerca di uno sguardo in grado di fermare il tempo. L’ultima parte del disco, meno convincente, parte con Crave, ossia l’esigenza di chiudersi in sé stesso e nascondersi da tutto, rapito dal panorama di un’alba da uno scoglio; il baricentro si sposta poi sulla malinconia di Only Knew That You Were Thirsty. L’atmosfera si infarscisce infine di dolcezza in Delicate e A Time Before The End – prima moviole lancinanti, poi boati sofferti – prima di chiudersi con la chitarra di Yellow Lights and Blue Seas.

Nei dieci brani di matrice Damien Rice, che si susseguono con strumenzazione volutamente scarna e minimal, capiamo che Hide Vincent c’è. Sì, ora sappiamo che ci sei, Vincent e che il cuore ce l’hai messo. Aspettiamo con ansia di sentirti “urlare” con un po’ più di pathos alla prossima uscita discografica.

Written By

Sono nata poco prima che venisse pubblicato “A kind of magic”, titolo che ben rappresenta il mio legame con la musica e le parole. Parole che ho imparato a confrontare, esplorare, investigare grazie al mio lavoro di traduttrice, per cui ho l’immensa fortuna di traghettare tra diverse sponde linguistiche e di entusiasmarmi ogni giorno di più. Parole: input, fonti di sapere e di potere. E poi la musica: uno scudo, un antidolorifico, un paio di ali. Collaboro con Rockon – e in misura minore con altri webzine – da quando, qualche tempo fa, ho pensato di unire le costanti della mia vita sperando di creare qualcosa che ribollisse dalla musica e che potesse, con la medesima forma, provocare le stesse emozioni a diverse persone. Work in progress…

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