Articolo di Philip Grasselli | Foto di Andrea Ripamonti
Parlando di musica di grande qualità, non possiamo non menzionare questo ragazzo londinese (ha trent’anni, come vola il tempo quando vedi artisti muoversi da quasi quindici anni…) che oramai ha conquistato il mondo, al di là del coinvolgimento del pubblico con i suoi cori, con le sue capacità compositive e performative, suonando letteralmente tutto ciò che gli capita tra le sue mani.
È praticamente sold-out il concerto di Jacob Collier all’Alcatraz di Milano, con più di 2,800 persone a riempire la sala concerti e con un clima di grande attesa: un pubblico che possiamo definire, spesso e volentieri, “studiato”, dato che – origliando – sento parlare di teoria musicale, o addirittura, con i solfeggi cantati del Pozzoli in mano. Ma andiamo a ripercorrere la magia della serata dell’Alcatraz.
Lau Noah in apertura
Alle 20 spaccate parte l’apertura, forse una delle più grandi occasioni per ascoltare dell’autentico folk catalano, un po’ come quello di Rosalía ai tempi del suo primo album, “Los Ángeles”: la differenza è che Lau Noah suona quella chitarra spagnola in una maniera così elegante che sembra letteralmente incollata alle note cantate. Tutto questo da autodidatta. Sul palco solamente lei e la sua chitarra flamenca, con quell’inconfondibile timbro sulle corde più gravi.
“El jardinero”
Hombre de corazón frío sin compasión
Lau Noah – El jardinero (2024)
creador de la guerra adueñado del sol
señor del agua del río del mar, a los dioses te fuiste a olvidar
cómo eres capaz de quererme sin reconocer tu verdad
¿Cómo confiar, cómo confiar…?
Il brano che più mi ha colpito è “El jardinero”, in questo contesto c’è tutto: la poesia, i melismi che seguono fedelmente le note sulla tastiera della chitarra, o il contrario? Un intreccio difficile da descrivere, ma da vivere. Anzi, forse è meglio viverle con il suo concerto al Tiny Desk: la prima artista catalana a proporre la sua musica in questo prestigioso format.
“A dos”: l’album delle collaborazioni
A inizio anno è uscito il suo secondo album, “A dos”, che vede una serie di collaborazioni, tra cui con Jacob Collier per il brano “If a Tree Falls in Love with a River”: un duetto a due chitarre e due voci, con la voce di Collier quasi a canto gregoriano. Da ascoltare a occhi chiusi, in pace e con il cuore in serenità.
E, verso la fine della mezz’oretta di live, incredibilmente volata, il coinvolgimento del pubblico, diviso in due parti, a cantare tutti insieme “Ode to Darkness (The Lighthouse Song”. Una sessione che va un po’ ad anticipare quello che sarebbe successo dopo con Jacob Collier: la magia del canto all’unisono, che ignora qualunque differenza di “bravura” vocale, basta essere nel mood.
Proprio lui, Jacob Collier!
Con Lau Noah il senso di attesa si è ulteriormente amplificato, il benessere psicofisico non può solo che migliorare ulteriormente e nei quaranta minuti di attesa il pubblico è preso bene nel cantare qualche canzone proposta dal Front of House.
Alle 21:15 si spengono le luci e parte epico e pomposo il secondo live all’Alcatraz della carriera di Jacob Collier, che si presenta su un palco cordiale, amichevole e ricco di elementi, come fossimo in mezzo ad un parco (di luci). Al centro del palco, infatti, una panchina in legno ben sopraelevata, in sfondo tre o quattro alberi in vaso, mentre in primo piano l’intera band: veramente difficile, in questo caso, “gerarchizzare” la loro bravura, sarebbe anche superfluo e irrispettoso.

Alla chitarra troviamo Ben Jones, al basso Robin Mullarkey, alla batteria Christian Euman, poi anche Lindsey Lomis alla chitarra e voce, Alita Moses alla voce e alle percussioni ed Erin Bentlage alle tastiere e alla voce. Quest’ultimo terzetto poi si è divertito ad alternarsi a diventare voce principale con risultati davvero emozionanti.
“Djesse, Vol. 4”: piacere, sono Jacob!
E siamo giunti al quarto e ultimo volume di Djesse (da pronunciarsi “jazzy”), uscito il 1° marzo 2024, un po’ controverso dal punto di vista della critica, considerato, sotto certi aspetti, quasi più una ostentazione della approfondita conoscenza della teoria musicale, piuttosto che un disco completo. Per altri aspetti, invece, proprio tale conoscenza è il punto di forza della solidità di Djesse, Vol. 4. In ogni caso, è pure candidato ai Grammy Awards 2025 come album dell’anno.
Hello there, my name is Jacob, and yours?
Jacob Collier dopo “100,000 Voices”: la risposta è stata ovviamente caos
L’inizio è affidato proprio alla prima traccia del suddetto album, “100,000 Voices”, una di quelle che vuole simulare davvero una presenza massiccia di voci in sottofondo, un coro immenso, ma anche una speranza nel riconnettersi con una persona andata perduta nella nebbia delle connessioni (“Took a walk somewhere/Through the fog to the roaring sea/I could almost see you there/Standin’ right in front of me.”). In questa situazione, Jacob Collier sta al pianoforte, un bello Steinway & Sons nero, classico. Nemmeno il tempo di finire che passa al secondo strumento, una chitarra elettrica headless, una Strandberg rossa con il suo logo bello impresso sopra la tastiera: il quarto brano da Djesse, Vol. 4 è servito, “Wellll”, che mi ricorda vagamente “Love It If We Made It” dei The 1975.

Il primo “feature” è quello per “Little Blue”, con la dolce voce di Erin Bentlage che rimpiazza Brandi Carlile nella versione originale. Un brano di grande dolcezza di suoni, virato un po’ tra la world music e con una chitarra acustica quasi country.
Quattro brani, quattro strumenti diversi: basso a cinque corde per “Time Alone With You”, dove l’attenzione viene spostata verso la famigerata panchina sopraelevata a centro palco. Mai visto suonare due bassi in contemporanea, oramai non so più cosa aspettarmi da concerti così tecnicamente complessi!
La magia del Fa diesis maggiore
“I’m so happy to announce that the next song’s gonna be in F# major”
Gli annunci speciali di Jacob Collier mentre imbraccia la chitarra a dodici corde
Una scala che agita i neofiti della teoria musicale: Fa diesis maggiore. Inizi anche a farti una conta dei diesis, ben sei, sta dall’altro lato del circolo delle quinte… e via che parti con l’idea anche degli accordi che farà. E non banalmente, un Sol diesis minore. Aggiungiamo una nona, poi un’undicesima, poi un sus, e poi una settima minore, ed ecco qui che esce “The Sun Is in Your Eyes”. Un principio di solennità che culmina poi con la cover dei Simon & Garfunkel, “Bridge Over Troubled Water”: un silenzio di tomba cresce all’interno dell’Alcatraz, mentre Jacob Collier la suona con synth e harmonizer, con l’occhio di bue che lo illumina solo nel buio del palco. A tratti ricorda “Hide and Seek” di Imogen Heap. Quella solennità frammischiata tra le emozioni e i singhiozzi di buona parte del pubblico.

Emozioni, ma anche svenimenti
Sì, perché spesso e volentieri, in questo caleidoscopio di emozioni, si passa dalla spensieratezza di brani molto allegri ai lacrimoni, più che dalla tristezza, da sindrome di Stendhal. Personalmente ci sono stati un paio di momenti, tra i quali proprio “Bridge Over Troubled Water” e “In Too Deep”, in cui gli occhi si sono patinati di umore da quant’era tutto così… bello. È davvero indefinibile il momento, va vissuto.
Una montagna russa di emozioni, ma anche, appunto, di svenimenti: tre o quattro sono stati gli interventi della Croce Rossa che hanno costretto anche a qualche minuto di interruzione per poter svolgere il tutto al meglio. Il plauso di Collier, ovviamente, anche per loro, intervenuti sempre tempestivamente risolvendo le varie situazioni.
Per chiudere… anche la batteria e l’attesissimo coro del pubblico
Ebbene sì, Jacob Collier suona bene anche la batteria e si è concesso pure un assolo di un paio di minuti e un duetto con l’altro batterista, Christian Euman, quasi come un contest da vincere. Ma non ci sono vincitori, anzi. I vincitori saranno tutti quando arriva il momento più famoso, virale e suggestivo: The Audience Choir. Il polistrumentista inglese si “erge” direttore di un coro di quasi tremila persone, facendo corrispondere le varie altezze ai vari settori della venue di via Valtellina. Non c’è nessuno che stona, la tridimensionalità del suono quasi somiglia all’inizio di “I’m Not in Love” dei 10cc: tutto questo per più di dieci minuti. Tutti sono dentro, persino bodyguard, Vigili del Fuoco, volontari della Croce Rossa. Mai visto un coinvolgimento così totale. Che aumenta con la cover dei Queen, “Somebody to Love”, un intero bis dedicato a questo capolavoro inglese che compie quasi cinquant’anni.
La gente esce dall’Alcatraz come da una bolla, che balla e canta “September” degli Earth, Wind & Fire: un’esperienza del genere è forse una delle più alienanti che abbia mai vissuto finora in un live. L’armonia quasi come cibo della mente, il senso di sazietà è ben superato, quasi da pisolino post-prandiale.
Clicca qui per vedere le foto di Jacob Collier e di Lau Noah all’Alcatraz di Milano (o scorri la gallery qui sotto).
JACOB COLLIER – La scaletta del concerto all’Alcatraz di Milano
100,000 Voices
Wellll
She Put Sunshine
Little Blue
Wherever I Go
Time Alone With You
The Sun Is in Your Eyes
Bridge Over Troubled Water
In Too Deep
Mi corazón
Witness Me
Fly Me to the Moon
The Audience Choir
All I Need
Over You
Box of Stars Pt.1/In My Bones/Sleeping on My Dreams
Encore:
Somebody to Love (+ The Audience Choir)
