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IL TEATRO DEGLI ORRORI – Il Mondo Nuovo

La Tempesta/Universal
Avrebbe dovuto intitolarsi “Storia di un immigrato”, invece, Capovilla ci ha ripensato e per paura di confrontasi con un mostro sacro come Fabrizio De Andrè ha optato per intitolare il terzo (capo)lavoro del Teatro degli Orrori “Il mondo nuovo”. In ogni caso Capovilla continua a giocare, brillantemente, con riferimenti letterario-politico altissimi, parlando di Antonio Gramsci, Alberto Asor Rosa, o riprendendo frasi di Rimbaud e citando Majakovskj
e Pasolini. I testi conservano un’aura poetica, politica e allo stesso introspettiva propria della grande tradizione dei cantautori italiani, supportati da un sound spesso irruente, math e noise, con qualche inflessione elettronica e folk. Capovilla, poi della grande tradizione cantautorale e politica italiana e non solo dei ’70 continua ad interpretare l’arte come un atteggiamento politico e a portare alta la bandiera che il personale è politico e viceversa. Sia ben chiaro per i più giovani, qui per politica non ci si riferisce a quella dei partiti, che di politica fanno ben poco, dato che il più delle volte non sono altro che portavoce di lobbies, bensì ad una politica cui va attribuito il senso più nobile di questo termine, vale a dire, interesse della collettività. “Il mondo nuovo” è un profondissimo atto politico, in quanto tutti i sedici brani hanno un unico tema di riferimento quello dell’immigrazione.

La bravura di Capovilla e soci è stata quella di toccare il tema non con banali slogan, né tantomeno con il pietismo, ma come ogni lavoro letterario che si rispetti, partendo dalle storie dei tanti migranti che sono giunti in Italia per cercare di condurre una vita decente, dato che le guerre e il nostro sistema di vita li costringe a lasciare le proprie terre e i propri familiari per cercare fortuna nel “primo” mondo. Purtroppo non è per tutti così. Questa recensione ci offre l’occasione per ricordare che il testo unico sull’immigrazione in vigore, la famigerata Bossi-Fini, è una delle più razziste d’Europa e poi lo stesso Barroso, oltre all’Onu, all’Unhcr e ad altri organismi internazionali hanno accusato i governi precedenti, sia di destra che di sinistra di aver attuato atteggiamenti razzisti verso i migranti. Capovilla fa trasparire questo aspetto soprattutto con “Ion”, brano arpeggiato dalla chitarra di Mirai e dedicata a Ion Cazacu, l’ingegnere romeno, che in Italia faceva il muratore e che è stato bruciato dal suo padrone, solo perché gli aveva chiesto di essere messo in regola, morto dopo un mese di agonia, ma anche con il noise circolare dell’iniziale “Rivendico”, nella quale appunto rivendica il diritto di amare questo Paese, nel quale c’è posto per tutti.

Mi perdonerà Capovilla se noto delle assonanze tra lui e Bruce Springsteen, ma entrambi sono accomunati dal provenire da nuclei familiari profondamente cattolici e nonostante ripudino il cattolicesimo, certi tratti culturali di quel mondo se lo portano dentro, ma per fortuna lo utilizzano in maniera poetica, riprendendone alcuni topoi ed attualizzandoli o personalizzandoli. In un certo senso questo è ciò che ha spinto Capovilla a scrivere molti di questi testi e soprattutto “Gli Stati Uniti d’Africa”, che parte con un riferimento alla nostra Eni, responsabile dei disastri ambientali in Niger, brano che è quello più legato al disco precedente, in particolare a “A sangue freddo”. Il secondo motivo di contatto con Springsteen è “Cleveland – Baghdad”, che parla delle reclute Usa che si sono arruolate per andare a combattere in Iraq, testo che è in linea con “Devils & dust”. I temi ricorrenti in questo disco sono la paura del mare, la nostalgia, la malinconia e la fuga da un paese in guerra. Il primo tema emerge in “Cuore d’oceano”, brano elettronico con ospite Caparezza, che ha cofirmato il pezzo, nel quale emerge la potenza del mare, ma anche nella malinconica “Nicolaj”. La nostalgia pervade i brani in cui sono protagoniste le storie quotidiane dei migranti, come la frenetica “Skopje”. La malinconia è protagonista in “Vivere e morire a Treviso”, nella quale il tappeto elettronico supporta la quotidianità della vita proletaria di un migrante, mentre le staffilate noise di “Non vedo l’ora” supportano il bagaglio di disperazione di chi scappa dalla guerra.

In questi tempi così cupi e nei quali chi è stato al potere fino a pochi mesi fa in Italia ha cercato di rinnegare il senso di solidarietà che fa parte di una buona parte dell’Italia (e purtroppo in parte c’è riuscito), un disco come “Il mondo nuovo” è una valida bombola d’ossigeno per chi ha bisogno di musica militante e di confrontarsi, anche nel rock, con le storie vere di chi giunge nel “primo” mondo per disperazione.

Vittorio Lannutti

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