
DEERHUNTER - Microcastle
Bradford Cox e i suoi dischi, doppi, generosi, sbilenchi. Bradford Cox è l’ennesima icona dell’era moderna, lo stacanovista inflessibile che starnutisce dinanzi alla passività, che annichilisce la noia, che ritaglia, qua e là, momenti di gloria, momenti di puro indie-rock statunitense. Lui, l’ossuto tutto fare, l’ossuto dal caschetto quasi dorato, è la mente propulsiva dei Deerhunter, la mente arcigna che poi si sdoppia velocemente nell’altro progetto, quello parallelo, quello (auto)celebrativo degli Atlas.
“Microcastle” è il terzo capitolo dei Deerhunter, il terzo episodio che brucia le malinconiche aspettative di chi paventava una morbosa fotocopia del precedente, peraltro ottimo, “Cryptograms”. “Microcastle”, dodici brani, quaranta minuti. Tutto cambia, o quasi. La rivelazione del pop americano che sfiora i migliori passi della new-wave e che sfocia nella languida psichedelia (shoegaze?) tanto cara ai Deerhunter del 2007. I momenti magici: dalla banalissima “Agoraphobia” a “Never Stops”, dalla title-track (con la dilatazione finale improvvisa) a “Nothing Ever Happened” (con gli eighties in regia), fino ad arrivare a “Twilight At Carbon Lake” con tanto di coda psichedelica. Poi i soliti riempitivi, lenti ed inutili, nella fila, fortunatamente breve, che parte da “Calvary Scars” e termina con “Activa” (voce flebile e qualche rumorino alla cazzo di cane).
“Microcastle”, il cambiamento c’è stato. I Deerhunter evolvono verso il pop, verso i litorali melodici, verso le spiagge più popolate, verso le combinazioni più facili. Un ottimo album corroso da quei piccoli momenti di allucinante debolezza artistica. “Microcastle” è corredato di un bonus disc, “Weird Era Continued”, di tredici tracce inedite, piuttosto “caserecce” e qualitativamente mediocri (eccetto i dieci minuti deliranti della conclusiva “Calvary Scars II/Aux Out”).
