Intervista di Serena Lotti
L’Ultima Casa Accogliente è il nuovo album degli Zen Circus, realizzato a due anni di distanza da Il fuoco in una stanza e Dio solo sa quanto mi piace il titolo di questo ultimo lavoro. L’Ultima Casa Accogliente non ha indirizzo né latitudini, è un luogo non luogo, è una meta non meta, è qualcosa di sconosciuto ma anche di incredibilmente familiare, è una messa in discussione dell’essere umano nella sua interezza, dei padri, delle madri, dei figli, di chi eravamo, di chi siamo e di chi saremo. In questo disco gli Zen Circus ci parlano della caducità della vita passando per il tangibile e per il fisico, un dolore che puoi toccare e vedere cuocere sulla pelle, del bambino vulnerabile che sta dentro di noi, di un corpo, il nostro, (è quella la casa) che è prigione e catarsi insieme, un corpo che si ammala e che fa l’amore, del passato che torna e che ti sbatte in faccia chi sei e che rappresenta una tela intricata e complessa di emozioni, traumi, sensazioni, ricordi. E’ la celebrazione dell’amore e della fragilità, di errori che vanno accettati e non ripudiati.
L’Ultima Casa Accogliente è un quadro lirico complesso e liberatorio insieme, è una casa sì accogliente ma anche contenitore del dolore, una via crucis dalla quale alla fine ci si può affrancare e tornare alla vita. Un disco maturo, profondo, un lavoro che è il perfetto compendio della carriera degli Zen Circus e che ne celebra la profonda capacità narrativa densa di consapevolezza e viscerale umanità.
Abbiamo chiesto a Karim Qqru di raccontarci di più su questo viaggio interiore, di come è nato questo disco e anche qualcosa di più…
Ciao Karim , complimenti per il vostro nuovo album, L’ultima casa accogliente, l’undicesimo lavoro in studio. Un mosaico intricato direi, un linguaggio duro ed essenziale (Catrame, Bestia Rara) , immagini malinconiche e stranianti (penso alla lunghissima coda della title track, a Non, 2050), sonorità virulente e ruvide ma nel contempo anche ariose e melodiche. Coesistono più anime in questo disco? Insomma cosa ci avete messo dentro in termini anche di ricerca stilistica e cosa avete voluto dire con questo lavoro?
Grazie. Quando scriviamo i pezzi per un nuovo album il processo compositivo è molto naturale, non c’è una volontà precisa nel dare da subito una direzione stilistica ai brani, quella è una dinamica che riguarda strettamente la registrazione e la produzione. Durante la creazione delle canzoni invece il clima è molto “a briglia sciolta”, è la selezione di ciò che passerà dalla sala prove allo studio di registrazione il primo “filtraggio” del materiale. Da quel momento il tutto inizia a prendere una forma, una Pangea che piano piano muta e si sposta, fino ad assestarsi e creare l’album. Per L’ultima casa accogliente una volta finita la pre-produzione ci erano chiare due cose: non sarebbe stato un problema il minutaggio e la struttura anomala di alcuni brani e, soprattutto, il tutto sarebbe stato registrato senza editing in griglia e quantizzazioni. Non siamo una band di sperimentatori, non siamo i Residents, Captain Beefheart o i Don Caballero, in questo album però abbiamo cercato di uscire ogni tanto da alcune nostre “vie abitudinarie” a livello di arrangiamenti.
Questo è un album che tocca temi forti e grandi matrici esistenziali, in cui la componente autobiografica si percepisce nettamente. Ci volete raccontare quanta vita vissuta c’è nel disco?
La componente auto-biografica è uno dei cardini dell’immaginario dei testi degli Zen. Andre ha sempre attinto dalla vita privata, ma anche dai rapporti umani, dal mondo esterno, dalla provincia che diventa giudice, vittima e boia, dai tic, dai vizi e dalle virtù del “paese che sembra una scarpa”. Nella scrittura dei testi di questo disco il tema del corpo è uno spago che lega i brani l’un l’altro in modo inscindibile: corpi che si ammalano, che diventano prigioni e deperiscono ineluttabilmente fino a morire… ma anche corpi che fanno l’amore, si uniscono e celebrano l’esistenza.
La corsa alla musica ibrida e digitale sta un pò facendo soccombere in Italia l’indie e in generale l’itpop, perlomeno in un alcune fasce di pubblico. Che parola di incoraggiamento volete dare a quei ragazzi che si allontanano da questo genere musicale e che invece hanno voglia di andare in sala e piantarsi su uno strumento? Insomma, partendo dalla vostra esperienza, c’è speranza per il rock?
Faccio fatica a legare la parola “indie” al grosso di quello che sta accadendo in questo paese musicalmente negli ultimi 10 anni (noi compresi). Il termine “indie” nasce per dare un nome alla scena statunitense d.i.y. degli anni 80: etichette come Dischord, SST, Alternative tentacles, Amphetamine Reptile, label veramente pioniere nel creare un terreno nuovo per le strutture discografiche, di distribuzione e per quelle dei concerti. Un mondo che al tempo era lontanissimo dalla forma mentis delle grandi etichette, e veniva portato avanti senza intermediari e con un’etica ben precisa. Non è questione di giusto o sbagliato, di buoni e cattivi, ma di pubblicare e portare in giro la musica in modo diverso. L’80% delle band e dei solisti nostrani (noi compresi) ha, in qualche modo, dei contratti con le major da anni: magari pubblica gli album per un’etichetta indipendente ma ha le edizioni con una major. Non c’è nulla di male, figurati, ma accostare a tutto questo il lemma “indie” oltre a risultare antitetico suona anche strano, soprattutto quando si tenta di usare quel termine come targhetta per identificare un genere ben preciso. Come si può mettere sotto “l’ombrello dell’indie” una band jazz-core, un duo electro-clash, una band soul, un cantante che mischia rap e pop, un gruppo noise ed un cantautore? Questa dinamica è molto diffusa ma non riesco a capirla. Probabilmente (e lo dico senza ironia) è un mio limite. Detto questo la musica si evolve e diventa una descrizione del proprio tempo. Quando a livello culturale il mondo del rock casca spesso nel riferimento nostalgico ai bei tempi andati (che adoro) bollando come letame le uscite discografiche contemporanee questo mondo secondo me diventa involontariamente reazionario e non riesce più ad accendere quel fuoco sacro dentro il cuore e la testa di un ragazzo che per reazione si stacca con forza dalla “musica dei genitori”. Non so, forse (vista dagli occhi di un adolescente) questo allontanamento dalle chitarre e dalla sala prove vista come tempio della creazione è giusta; sono cicli storici, magari in futuro tutto questo tornerà prepotentemente, speriamo. Purtroppo non sono in grado di dare consigli su questo punto. Se do uno sguardo a come tutto è iniziato per noi (quando eravamo quattordicenni con in mano la prima chitarra) probabilmente la fortuna degli Zen come band è stata l’avere la musica come ragione di vita e “colla sociale” in un mondo nel quale ci sentivamo soli e non capiti. Vedi nei tuoi compagni di gruppo una famiglia e degli alleati. Con il passare degli anni poi il pubblico è cresciuto lentamente, in modo organico e graduale, facendo un passettino alla volta, senza mai esplodere di botto. Non è mai stato l’anno degli Zen, però piano piano siamo passati dal suonare in posti da 100 persone e non avere il disco distribuito nei negozi a fare sold-out in un palazzetto e ad aver il disco che esce e va in top 10. Una cosa impensabile ed al di là dei sogni più sfrenati quando eravamo ragazzini. Questo processo ci ha portato a vivere questi 20 anni insieme in modo naturale, ma va detto che 2 decenni fa il mondo era ancora in una fase pre-digitalizzata e la musica di conseguenza aveva una fruizione ed uno sviluppo diverso rispetto ad oggi, dove chi inizia a suonare ha davanti uno scenario diversissimo dal nostro al tempo. Abbiamo un pubblico transgenerazionale che va dai 15 ai 60 anni, sotto il palco e ai firmacopie vediamo un bellissimo melting pot di ragazzi e ragazze con t-shirt di Dead Kennedys, Iron Maiden, Metallica, Obituary, Converge, Pantera, Radiohead, Muse, Nirvana che balla e canta spalla a spalla con amanti del prog, dell’elettronica, del cantautorato, ma anche dei cantanti usciti dai talent: insomma, un mischione assurdo. Non so come sia potuto accadere tutto questo, forse suonando e registrando album senza pensare a cosa avrebbe voluto il pubblico da noi.
Avete collaborato con Violent Femmes e Pixies qualche anno fa. Ci volete raccontare dell’esperienza con Kim Deal e con Brian Ritchie per Villa Inferno?
Nacque tutto per puro caso, era il 2006 ed aprimmo una data del tour italiano dei Violent Femmes. Il nostro disco del 2005 Nello Scarpellini giunse nelle mani di Brian Ritchie, che se ne innamorò e si offrì di produrre il nostro album successivo. Nacque un rapporto di amicizia e di stima che portò al far uscire Villa Inferno con il moniker The Zen Circus & Brian Richie e al collaborare in studio con Kim Deal dei Pixies, Kelley Deal delle Breeders e Jerry Harrison dei Talking Heads. Fu la realizzazione di un sogno, adoriamo quelle band e siamo cresciuti con le loro canzoni nelle orecchie e nel cuore. Poco dopo partimmo per un tour con Brian in Australia; una delle esperienze più belle della nostra vita.
Qual’è l’urgenza espressiva degli Zen Circus, oggi, nel 2020 in piena pandemia?
Quella di sempre, che sia in studio o su un palco, suonare 🙂
Finirà tutto questo. Torneremo ad assembrarci sottopalco e voi a suonare live. Dopo quasi un anno di stop quanto siete pronti ad intraprendere un nuovo ciclo? Pensate che sia il momento di una fase evolutiva in generale per il mondo della musica?
Sono state messe in discussione molte cose durante questo 2020, ed un dettaglio non marginale è venuto fuori con prepotenza: l’essere umano senza musica, arte e cultura non vive, bensì sopravvive boccheggiando ed arrancando. Non ho la minima idea di come questa pandemia cambierà il mondo della musica, ma il modo nel quale questa ha lenito ed addolcito le anime ferite e travolte dal fenomeno Covid dà molti punti sui quali riflettere come singoli e come comunità.
Ultima domanda: consigli 3 dischi ai lettori di Rockon?
Kamasi Washington – “The Epic”
Chelsea Wolfe – “Pain is beauty”
Nomeansno – “Wrong”
