Articolo di Marzia Picciano | Foto di Katarina Dzolic
Al termine dell’intervista che facciamo un’ora prima del live presso lo Studio Iscian di Milano lo scorso sabato 25 gennaio, Giulia Impache, artista torinese che ci ha regalato uno dei dischi di elettronica sperimentale piu interessanti degli ultimi mesi, ci dice quasi di sfuggita che lei non si reputa così brava con le parole, mentre con i suoni e la musica si, quasi a scusarsi di una gaffe inesistente.
Eppure le parole e i nomi sono elementi che lei vive e maneggia con la determinazione di un poeta. A partire dal suo cognome, “frutto” di un errore di registrazione dei bisnonni all’anagrafe argentina e tenuto da lei come simbolo della libera interpretazione che gli si voglia dare, al nome del disco, IN:titolo, di fatto un gioco di parole che spiega molto dello spirito dello stesso.
Poche volte ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte un’artista, così giovane, con tanta coscienza del tipo di musica che realizza e di cosa vuole esprimere o semplicemente far accadere nell’ascoltatore.

In mezz’ora di chiacchierata Giulia Impache mi ha spiegato con molta chiarezza qual’é il senso di appunto IN:titolo, che l’ha portata a un unanime consenso su cosa significa fare musica, in un certo modo, oggi.
La Impache potrebbe andare, direbbero oggi, sotto l’etichetta di “contemporanea” “elettronica” o ancora Bjork italiana – “In Italia se c’è una donna cantante che fa musica elettronica, sicuramente é uguale a Bjork” ironizza lei – ma la verità é che quello che questo lavoro porta avanti in dieci brani ha poco di catalogabile. Quelli di Giulia sono grandi movimenti di braccia, corpi e voci che si riverberano come sott’acqua e poi in aria, canti dalle verità ancestrali, partono dai fianchi e poi arrivano in cielo, come dice anche Ozpetek in Diamanti, perché le donne alla fine guardano lassù, verso quello che non si può vedere.
Giulia Impache canta e suona moltissimo di sé, del suo mondo interiore, peró é un pacchetto chiavi in mano per l’ascoltatore per conoscere l’impenetrabile. Una libera interpretazione.
“Sì, nel senso che a me non piace essere ingabbiata o essere nelle strutture, di conseguenza non mi piace creare confini troppo delineati anche per per chi ascolta. Poi io arrivo dalla pittura” Giulia Impache nasce professionalmente da un percorso di arte e arteterapia. “quindi vengo da questo mondo di tavolozze di colori vari, e in l’arte informale, in cui fondamentalmente ognuno può può vedere quello quello che che c’è per lui. C e un po questo ritorno”. E quindi musicoterapia.
Ma come nasce ad esempio un pezzo come Occhi?
“Sicuramente la mia voglia, la riuscita dello scrivere i primi pezzi a nome mio combacia con il mio percorso anche di studi, e poi di pratica di arte e musicoterapia. In realta sono un artiterapeuta. E sicuramente questa cosa è stata molto utile per me sul giudizio. Nel senso, la musicoterapia ha lavorato tanto sul processo e non solo sul fine, e lavora molto sull’autoaccetarsi e anche accettare i propri limiti. Questa cosa qua, sia su di me, ma anche mettendola poi in pratica sui pazienti ha sbloccato in me questo senso di chiusura che invece avevo, di dire: no, non scrivo, non faccio. Ho detto, io ho bisogno chiaramente il mio canale di espressione. E allora ho lasciato fluire.”

Cosa vuol dire accettare i propri limiti?
“Sono molto, molto autocritica, perfezionista. Ansiosa. E quindi da cantante, studio canto da tanti anni, ho sempre prestato molto attenzione all’intonazione. Mi ascoltavo la registrazione, no? E invece con la voce, a livello musicoterapico, ho imparato ad accettarmi ogni giorno. Ogni giorno la voce sarà diversa, non potrà mai essere in forma tutti i giorni. Oggi, ad esempio, sento che i virus si stanno impossessando di me. E però vuol dire che stasera chi ascolterà la mia voce, avrà una pasta un pó più sporca.” (spoiler: non lo abbiamo notato). Per Giulia é questo il punto cruciale: accettarsi in questo senso, non aspettarsi sempre la perfezione che in realtà poi non è, non è possibile, anche se uno ci spera sempre e lo pensa.
Che poi oggi l’imperfezione nella registrazione, nell’esecuzione, é quello che in realtà sembra porsi come il sacro graal dell’artista. L’ultimo step della ricerca dell’autenticità.
“Sì, ma ho anche amici e tecnici che mi ha detto ci sono cantanti che preferiscono veramente la voce che esce dal dal cellulare, anche perché magari in quel momento c’era una situazione in cui la voce era più comunicativa. Invece quando vai in in studio di registrazione sai che hai un’ora per registrare e poi perdi tutto… Non voglio essere di parte, però il canto è molto anche psicologico, umano, quindi c’è il giorno in cui non sei in forma, e magari sei obbligato a registrare. Invece, bisogna accettare anche l’imperfezione del suono. Qualcosa che comunque torna in questo disco perché ci sono tanti spunti, anche glitchati, distorti, quindi una varietà di possibilità che il suono può avere”.
Aumenta la complessità dell’opera. Anche il titolo?
“Trovavo che questo disco fosse molto serio, si prendesse molto sul serio, perché sono tematiche a me care. Comunque ci sono temi personali, ed era molto difficile riuscire a trovare un nome per tutto questo percorso. Quindi ho voluto un pó giocare sul come lo intitolo. E poi da arrivando, appunto dall’arte contemporanea, molto spesso ci sono questi quadri “Senza titolo” che spesso recano anche fastidio a chi lo legge. E allora io ho detto, non posso chiamarlo Senza titolo. Ma in-titolo”.

E in questo modo anche cercando di aiutare chi ascolta a capire, conoscere, interpretare.
“Non non recrimino ció a chi scrive Senza Titolo, però dall’altro per me è sempre molto importante tenere a mente che più le cose sono ostiche, più (come artista ndr) devi cercare di andare incontro a chi non ha il modo di per poter codificare quelle cose. Quindi sicuramente intitolare un dare un nome alle cose, le avvicina a chi ci si approccia. Il mio é stato proprio un rimando a quest’aspetto del dell’arte e al fatto che mi dicessi di voler prendere spunto, però non dar fastidio. Non non creare astio. Perché questo disco, mi rendo conto che è particolare complesso….”
Ma é evidente che é difficile per un disco del genere non – non disturbare.
“Tratto temi personali. Questo disco nasce sicuramente da una mia necessità, un mio bisogno di riuscire a comunicare all’esterno. E anche affrontando temi che a volte sonó un po sempre difficili da affrontare. C’é un brano, Quello Che è, fondamentalmente parla di attacchi di panico, ansia portati dall’essere fraintesi. Sono difficili da affrontare perché sottolineano una debolezza, e noi siamo in un mondo in cui non devi mai mostrarti debole, fragile, ma devi sempre essere in hype, deve andare tutto bene. Quindi c’é questo bisogno di comunicare e trovare anche persone che magari vivono la stessa situazione, però, appunto, sempre lasciando loro la possibilità di dare l’interpretazione della loro situazione esatta. Non la mia”.
Per Giulia Impache si tratta di dare voce a una sua necessità reale, passata.
È stato un processo musicoterapico psicologico “ed io avevo bisogno di scrivere questa cosa”. Non sbagliamo nel pensare a IN:titolo come una grande opera maieutica. “La mia psicologa, mi fa: Scriviti delle lettere. Quando ho avuto un problema lavorativo che non riuscivo a lasciare, mi ha detto: fai così, visto che finirai a giugno e poi riprenderai a settembre, scriviti una bella lettera a febbraio, scrivi come ti senti e come ti fa sentire questa situazione e poi te la rileggi verso agosto, per ricordare che non dovrai tornare in quella situazione. E io invece ho scritto (Ìm)Lookin (for) Life che è un brano di questo disco!”
Una lettera scritta in italiano, in inglese, in un grande movimento di parole suoni e lingue.

“Reputo questo disco un disco di formazione, nel senso è un punto da d’arrivo, ma è un punto di inizio per altre cose. E anche le lingue diverse portano proprio a questo, una sperimentazione nel tempo. Mi imbarazzo molto a provare a scrivere in italiano. È vero che sembra più difficile, cioè secondo me lo è sì, cioè nel senso perché la ti giudicano subito se hai problemi di intonazione, si sente per forza. E invece poi per alcuni brani ho proprio avuto la spinta a farlo. Ad esempio, “Quello che é” il più personale l’ho proprio sentito è nato in italiano, cioè lo sentivo che che doveva essere in italiano. E poi c’è ovviamente questo gioco di universalità, nel senso che è un disco che non deve per forza essere solo italiano”. L’opera di Giulia Impache ha un pregio incredibile, rivoluzionario, se ci si pensa. Non aspira ad essere nulla di particolare, se non nelle menti di chi l’ascolta.
E mentre tutti cerchiamo il rimando, il riferimento, ecco che IN:titolo mira a spazzarli tutti, disorientandoci.
“So che non è possibile creare effettivamente qualcosa di nuovo, non nel 2025, dove c’è addirittura l’intelligenza artificiale, ma da quando sono piccola cerco un pó di andare controcorrente, differenziarmi. Noi siamo abituati a essere bombardati da quello che ci deve piacere, certo, ma se bombardassero con altro? Che Paese saremmo, se avessimo in radio il noise che passa tutti i giorni?”
Bella domanda. Forse un pó più meno alla ricerca di indicatori e riferimenti, poco timorosi di interpretare? Come quella che é l’interpretazione di un pezzo come Sailor, non una canzone d’amore per Giulia. “Il brano in realtà è dedicato ai miei compagni di viaggio, Jacopo Acquafresca e Andrea Marazzi, loro non lo sanno perché a molti sembra essere una canzone dedicata a un amore in realtà. C’é questa similitudine con i marinai: come hai fatto che una nave che può funzionare? Ci sono tutte una serie di persone che non la fanno affondare, e quindi parte da loro, da Jacopo e Andrea e si allarga a tutto lo staff che lavora con me” (qui fa riferimento a fotografi, stylist, produttori, etc). “Dietro a un musicista c’è un mondo che lavora, e da solo affonderebbe”.
Ma che poi viene lasciato sempre alla libera scelta interpretativa dell’ascoltatore (la sottoscritta aveva pensato a Sailor Moon, ma la mia TV non trasmetteva, appunto, noise). Ed e quello a cui punta Giulia. Quello che spera il suo pubblico, nei concerti, faccia.
“Che si faccia trasportare da viaggio sonoro. Ci sono un sacco di stimoli durante il live, non si discosta tantissimo da dal disco” a parte l’essere almeno in trio. “Posso farmi anche in pezzi da sola, però è un’altro tema per me molto importante sottolineare che la musica è bella perché si suona assieme, che è un concetto collettivo”.
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