La settimana più chiacchierata della musica italiana è giunta al suo termine, le acque si sono calmate e le nostre vite sono necessariamente tornate ad una normalità tinta di rosso ed arancione, eppure c’è qualcosa, rispetto al Festival di Sanremo, che ancora fa pensare. È arrivato il momento di togliersi qualche sassolino dalla scarpa.
Questo Festival, l’abbiamo detto e stradetto, è stato particolare, diverso, è stato quasi come se non fosse esistito, come se fosse iniziato e finito in un battito di ciglia, per noi, seduti su un divano a fissare la televisione mentre, per quattro o cinque ore di diretta, osservavamo la sfilata di talenti vecchi e nuovi, pronti a sentirci critici musicali di gran tiratura. Il bello di Sanremo, d’altra parte, è anche questo: poter essere per una settimana dei giudici da salotto, divertendosi più per quello che per il sequestro di persona che un programma di 6 ore senza pubblico è.
Se, però, per noi è fondamentalmente un divertimento, c’è una categoria di persone per cui il Festival rappresenta uno dei palchi più importanti della propria vita: gli artisti. E ancora, se è vero che per alcuni di questi ormai è diventata un’abitudine esibirsi all’Ariston, per altri quest’anno è stato un battesimo del fuoco. Concentriamoci su questi ultimi. Anzi, concentriamoci su uno in particolare: Random.
Il Sanremo di Random non è stato strabiliante, e questo lo sappiamo tutti, tuttavia quello su cui c’è da soffermarsi è il trattamento mediatico che tutti abbiamo riservato al giovane rapper, impuniti e motivati da quel fuoco sacro che, nella settimana sanremese, arde in tutti noi. Però le parole pesano, soprattutto se si lanciano come sassi, soprattutto quando si hanno diciannove anni e tutto da perdere.
E sì, proprio tutto da perdere, perché a diciannove anni, essere divorati dalla stampa alla prima vera apparizione fuori dalla comfort zone, è una cosa che fa quasi curriculum, ti segna, ti resta impressa addosso.
Random, lo abbiamo detto, di anni ne ha diciannove, ha sempre lavorato e ha inseguito il suo sogno, si è trovato sul palco dell’Ariston, che è un palco che divora, e invece di essere divorato dal palco, l’abbiamo divorato noi. Perché Random non ha la voce di Bocelli o la penna di Faber, ma non era l’unico in questa kermesse ad essere sottotono, eppure le strigliate se le è prese tutte lui, le ha buttate giù con più eleganza di quanto avrebbero fatto alcuni sui colleghi veterani, capendo che forse l’enormità di quella macchina ha nel suo pacchetto anche quella sovra esposizione.
Ecco, io credo che salire a nemmeno vent’anni su quel palco sia una cosa clamorosa, immensa, un’esperienza quasi onirica e credo che sia una conquista che noi, mentre dai nostri divani commentiamo animatamente le stonature o gli outfit, non possiamo nemmeno immaginare.
A Random, con i suoi vent’anni con quell’aria stralunata ma davvero divertita, noi non abbiamo risparmiato un colpo, mettendolo nel grande pentolone degli emergenti. Eppure, a quel festival, di emergenti non c’era questa grande numerosità (eccezion fatta per Madame, che sembra nata per divorare i palchi, e Fasma). È ingiusto paragonare la performance di un Random con quella di un Willie Peyote, o della Rappresentante di lista, o quella di Colapesce e Dimartino, perché i secondi termini di paragone sono nomi forse non noti al grande pubblico, ma con una gavetta e una carriera fatta di molti più palchi di quelli calcati da alcuni colleghi più noti. E i palchi forgiano, fortificano e sono una palestra. Sarebbe come paragonare un novello scrittore con Umberto Eco, solo perché non sappiamo chi è Eco.
Ma al di là di queste considerazioni, l’accanimento dimostrato nei confronti di Random è ingiustificato da due fattori: il primo è che di grandi note non prese ci si perde nell’elenco, non è certo stato il Sanremo del bel canto per tutti, il secondo è che il giovane rapper ha dimostrato una grande umiltà, cosa mancata ad altri, le cui performance non erano certo migliori.
Random alla fine di questa storia è arrivato ultimo eppure quello di cui ha parlato, nelle sue storie, sono stati gli attacchi della stampa, come se in lui avessero trovato il capro espiatorio del Festival. E qui, a prescindere da se piaccia o meno, vogliamo ricordare, per primi a noi stessi, che c’è sempre qualcuno dall’altra parte delle parole.
“Che schifo avere vent’anni, però quanto è bello avere paura” cantavano i Coma_Cose qualche anno fa. Forse dovremmo ricordarcelo più spesso.
di Mariarita Colicchio
