Articolo di Marzia Picciano
Che suono fa il mondo quando siamo nel mezzo del dolore? É un pó come chiedersi se e come in una giungla nascosta e irraggiungibile la caduta di un albero faccia effettivamente rumore. Il dolore, diciamo quando al suo massimo, é “sordo”, il che é quasi un ossimoro, o la parafrasi letterale dell’appannamento di vista e suono, quel rumore bianco che precede di fatto uno svenimento. Quello che non sentiamo perché siamo effettivamente impegnati a sentire, appunto, il dolore.
Quando chiudo la Teams call con Simon Scott, leader di Three Quarter Skies (progetto realizzato con Sonic Cathedral) che lo scorso 6 settembre ha presentato al pubblico Fade In, primo vero disco della band, ho più o meno la sensazione di aver assistito a uno di quei flussi di vita che a quanto pare dovremmo ripercorrere al momento di esalare l’ultimo respiro. Niente di drammatico: ma la sensazione di catarsi é importante. Ora, non staremo a sottolineare che Scott é lo storico batterista degli Slowdive, anche perché come mi dice lui, é quello che la gente si aspetta, o con cui caratterizza il suo progetto musicale (“la band di Simon Scott degli Slowdive”, per l’appunto); ci sia in ogni caso di informazione base, utile per comprendere che ci troviamo di fronte un artista, compositore e produttore (Fade In tra l’altro é stato prodotto e remixato con Dave Pearce di Flying Saucer Attack) che ha idee e percezioni chiare di cosa vuole e soprattutto non vuole fare. “Non volevo creare un disco che avesse momenti-Slowdive, ma volevo che fosse qualcosa di diverso, qualcosa di unico per questa band, e Three Quarter Skies è diverso”. Cosa ha creato Simon Scott quindi? E perché ci dovrebbe coinvolgere così tanto?

Prima di tutto é qualcosa di estremamente personale eppure così universale. Il kraut rock con estreme reminiscenze da Mogwai (band che Scott ama molto e con cui hanno suonato) dei primi pezzi dell’EP Universal Flames del 2023, Holy Water e Pieces of Roslin si ricreano in un continuo senso musicale che é più simile a un grande movimento dell’anima che a qualsiasi altra cosa che potremmo definire una canzone, e questo non ha niente di negativo in sé. É molto probabile che sia il suono di un albero che collassa su di sé nel mezzo della foresta del Borneo. Come di fatto Fade In nasce da un collasso. Personale.
“Ci ho messo dentro un sacco di mie emozioni. Non ho davvero idea di come le persone interpreteranno i Three Quarter Skies e l’album in particolare, perché per me segue emozioni davvero turbolente. E alcuni pezzi dell’album, in particolare le tracce finali che ho scritto, sono in un certo senso ispirati alla morte di membri della mia famiglia. E sono stato molto aperto e onesto a riguardo piuttosto che fingere di, sai, non aver sofferto per la perdita e il dolore. L’ho reso abbastanza esplicito, suppongo”.
Fade In arriva in un momento particolarmente forte di Simon Scott: la perdita dei genitori e la fine di una relazione molto lunga. Eppure, come guidato da un perfetto spirito-guida-riparatore, decide di mettere tutto in musica, tradurre il suo sentire in qualcosa che fosse comprensibile a tutti. Sarà per questo che tutto il disco arriva come un pugno nello stomaco. Anche se va processato a lungo, mi suggerisce Simon (al momento dell’intervista ero alla seconda lettura). Il tempo di sentirlo attraverso le proprie lacrime.

“Molti hanno apprezzato la tristezza del disco. Hanno detto che si sentivano fortemente colpiti dalle canzoni e dai testi e questo è un pó quello che volevo. Che la musica descrivesse davvero come mi sentivo, che era, sai, quando qualcuno muore o quando rompi con qualcuno in una relazione, il che è successo. Ho perso mio padre, poi ho rotto con un partner di lunga data e poi è morta mia madre e volevo che il disco fosse arrabbiato, e volevo che fosse turbolento e volevo anche che fosse bello e anche una celebrazione. Il modo in cui è venuto fuori… non deve suonare come se lo avessi progettato nel dettaglio, ma é che questo disco e’ bello, e turbolento e triste.” Ironizza: “È solo che è venuto fuori in un certo modo, e non sono sicuro che le persone riusciranno a coglierne la bellezza, anche se sicuramente riusciranno a coglierne la rabbia e la tristezza del dolore”.
Ad esempio, parlando di ascolti, io ero stesa sul letto a fine giornata e in una sorta di sogno-ad-occhi-aperti e l’ho trovato oltremodo accogliente, nonostante l’oscurita’, come un mondo in cui abbandonarsi. Non esattamente quello che Scott pensava mentre buttava fuori l’anima dallo stomaco, ma é lui stesso a rassicurarmi. “Il modo in cui le persone interpreteranno l’album sarà così diverso. E dipende da dove ti trovi nella tua vita, a che ora del giorno lo ascolti, se sei a casa o in macchina o in piedi o in un locale con un drink in mano. Penso che otterrai cose diverse e sai, ed è bello che ti abbiano catturato momenti eterei piuttosto che il riverbero nel tipo di bassi distorti aggressivi o altro.”
Più o meno a questo punto é chiaro che l’intervista é inesorabilmente destinata a piegarsi alle volontà interpretative della sottoscritta, inclusi i suoi voli pindarici e non solo. Parlo a Scott della sensazione di vuoto che ascoltare un pezzo come Crows genera dentro di me (il sordo dolore?). Gli dico che ascoltarlo mi ha trasportato a quando nuotavo nell’aria a fine agosto, lanciandomi in una folle esperienza di bungee jumping: non ricordo il minimo suono, se non un rumore bianco.
“E’ interessante sentirlo. Non ho mai fatto un salto di bungee jumping. Penso di essere un codardo… sai, preferisco alzare cose sul palco piuttosto che provare a lanciare me stesso da edifici o scogliere o altro”. Peró capisce cosa dico, cosa sento quando mi proietto nella voce lontana di Slight Betrayal. “Voglio dire, penso probabilmente, sai, mi andava un pó così, sembra forse un pó troppo spirituale e un pó hippy, ma non riesco a quando ero… Quindi non volevo solo scrivere testi shoegaze. C’è un sacco di roba shoegaze, e suono negli Slowdive e volevo che fosse diverso e sai… perché ho perso mio padre e mia madre, ed erano entrambi delle influenze molto importanti nella mia vita… Penso che ci sia una forza maschile. Prima hai detto dei Mogwai, che adoro. Abbiamo suonato con loro un sacco di volte e hanno un suono piuttosto maschile. E mi piace il lato oscuro, ma anche la band che ha un lato femminile, motivo per cui penso che i My Bloody Valentine siano così stimolanti per molte persone perché c’è una specie di spinta maschile nel loro suono e aggressività, ma c’è anche una qualità davvero incredibilmente tenera, morbida e femminile. Penso che solo perché avevo bisogno di fare questo album per elaborare una sorta di dolore personale, sono stato preso in un modo che mi tirava dentro in entrambe le direzioni. Quindi questo potrebbe spiegare cosa hai sentito, nell’album. Potrebbe non essere il caso, ma questa è la mia altra risposta logica a ciò”.

Non c’é forza nera che non sia davvero nera senza contenere un (assenza) di luce. Qualunque sia la spinta, Scott l’ha stampata in un disco che non é altro che tutta la disperazione e il casino di un momento di vuoto. Insomma, fa rumore. “I like intense stuff” mi dice, mentre gli confesso che non mi sono sentita così rapita e stranamente confortata neanche in due ore di concerto dei Sigur Ros. Che a lui piacciono, ovvio. Ma pensa più ai The Cure come effetto, un lento ritorno a un posto nostalgico. Gli chiedo come é stato portare Three Quarter Skies dal vivo.
“Sai, abbiamo fatto un concerto l’anno scorso da questo EP (Universal Flames). Avevo un batterista, un bassista, un chitarrista, e io canto, suono la chitarra. E l’ho odiato davvero! È stato 11 mesi fa, lo scorso ottobre, e mi sentivo come se avessi appena formato un’altra band shoegaze ma le sue parti non lo erano. Quindi ho detto agli altri ragazzi della band, ascoltate, non lo faremo più. Non voglio che ci siano batteria bassa, chitarra, io che canto. Voglio davvero che sia più come là fuori, ancora più elettronica. È stato fatto così tanto. Volevo fare qualcosa di diverso. Quindi in questo tour ci sono solo io con una drum machine e un altro chitarrista. Ed è molto più facile, anche per fare qualcosa di diverso”. E la risposta? “Brilliant. Alcune persone hanno davvero apprezzato, é stato questo il feedback, anche se il volume potrebbe essere piuttosto alto. Ci sono spettacoli di luci piuttosto psichedelici e roboanti, ma molte persone che sono salite in aereo per venire hanno detto “Ho pensato che fosse bellissimo. Ho davvero sentito l’emozione e ne sono rimasto davvero commosso”, e abbiamo beccato un paio di persone a piangere. Inoltre, perché la canzone “Crows” è in realtà una metafora per guardare i miei genitori morire, cosa che ho fatto letteralmente, le persone si sono davvero commosse. Penso che l’intera ragione per cui lo facciamo è che raddoppiamo le nostre emozioni e ora vogliamo che le persone reagiscano. E quindi… è il più grande complimento, ovvero che le persone stiano reagendo. È importante quando fai commuovere le persone fino alle lacrime, è qualcosa sempre importante, in realtà”.
Ed é anche mettere insieme diverse ispirazioni. C’é tanta altra musica in Three Quarter Skies, ci sono diversi riferimenti culturali, da David Lynch a ovviamente Nick Drake (la cover “Horn” ne é un esempio ma il vero riferimento é a una canzone precisa, una Pink Moon che a suon di tequila ha fatto scattare l’amore tra Scott e la sua di allora compagna. Ma la maggior parte dei riferimenti sono soprattutto naturalistici, libri di scienza naturale come Silent Spring di Rachel Carson, opere di Robert MacFarlane e Nan Sheperd. Il nome Three Quarter Skies nasce proprio dalla zona da cui Simon ci parla (a Cambridge, a The Fens, “la gente del posto la chiama così per i cieli davvero grandi e ampi perché è così piatta, hai un pó di terra e cielo, e quasi tre colonne di cielo”). Ci dice che la vera più grande influenza per la band é il paesaggio e l’ambiente attorno a Cambridge. “È il posto più basso in Inghilterra, in un certo senso cartograficamente. È tutto sprofondato sotto il livello del mare. L’ecosistema è stato distrutto dal sistema di drenaggio, che è il capitalismo che è andato alle stelle tipo: “ehi, roviniamo questo paesaggio!”. Ed è andato tutto storto”. Non solo per il nome, Scotte gli altri sono davvero parte di questo mondo (sono di Cambridge). “É una specie di metafora di come mi sentivo quando ho voluto formare una band”. Sprofondato e devastato.

Eppure in questo nulla c’é speranza. L’ha vista nelle persone della sua età che nel chiudersi a riccio durante la pandemia sono diventate, a suo avviso, più intelligenti perché si sono “ascoltate” di più. C’é stata una presa di coscienza collettiva, anche della propria mortalità, e questo va visto positivamente. Ad esempio “Superwoman é dedicata alle proprie figlie, per quanto si potrebbe pensare alla propria madre. “Parla di loro (le figlie) che trovano la forza e la conoscono. Io sono sempre qui perché sono il padre, e il papà c’é ma… Superwoman in realtà parla di persone che perdono la strada, persone che si perdono. Invecchiando, perdi l’innocenza di quando sei piccolo. La vita può essere davvero crudele. E si tratta di cercare di far fronte a quella crudeltà che la vita ti lancia addosso invecchiando, piuttosto limitarsi a un sentimentale “Amo i miei figli”, quella roba noiosa “Amo il mio compagno. Amo mia mamma e mio papà”. C’è molto di più. Questa musica è il mio posto sicuro perché il mondo è fottutamente brutale e c’è un sacco di merda che sta andando avanti...”
Mi dice: non é forse tutto molto egoista, questo fare musica come se fosse la propria terapia? Non lo penso, no. Gli dico che passo giornate a pensare di non fare nulla di bello, nel senso di crearlo. E per questo invidio molto gli artisti. Chi del dolore riesce a farne appunto, bellezza, in qualsiasi forma. “Penso di essere solo davvero fortunato ad essere nato con un cervello molto creativo, che probabilmente viene da mio padre. Era un architetto e faceva rilievi topografici su aree di terreno su cui costruire. Ecco perché da bambino andavo con lui a Cambridge, in campagna. Mi trascinava fuori, mi faceva stare in piedi nei campi dove poi ho iniziato ad ascoltare il canto degli uccelli e in un certo senso mi sono impegnato davvero con il mondo attraverso il suono. Ecco perché probabilmente la musica di questo disco è piuttosto ricca dal punto di vista sonoro. Ha senso?” Mi chiede. Direi di si, se di sensato c’é qualcosa in tutto questo sentire e io penso di si. Perché raramente si ha la possibilità di toccare il discorso del vuoto con qualcuno e forse chi ne parla ne é più titolato, ma tutti ne abbiamo avuto esperienza.
Quello che Fade In ci dice, che Simon Scott ci dice, é che é possibile scomparire in un ricordo, e farsi vuoto per riuscire a colmare un’assenza, a rilanciare una ripartenza forzata dove siamo messi in corsa ai trampolini di lancio senza possibilità di obiettare. In fin dei conti é un pó come riuscire a fermare il mondo, facendolo andare avanti, e tornando a quel momento in cui hai percepito amore e paura per la prima volta. É un sentimento arcaico, che ha più a che fare con la voglia di vivere seppure sembri sfiorare la morte. I Three Quarter Sky, dal loro punto di vista privilegiato sul mondo l’hanno catturato e ce l’hanno dato. Non posso che attendere di vederli live in Italia.
Ringraziamo Enzo Lorenzi per questa splendida opportunità!
