Articolo di Serena Lotti | Foto di Andrea Ripamonti
I Peach Pit, una delle band indie rock più apprezzate degli ultimi anni, arriva finalmente a Milano, per l’unica tappa italiana del loro tour europeo che celebra e promuove l’uscita del loro ultimo disco Magpie, il loro quarto LP in carriera, pubblicato ad Ottobre per Columbia Records. Il weekend che cade non è dei migliori per infilarci un live, un ponte iper lungo che ha spinto la maggior parte dei milanesi fuori dai confini urbani: stranamente non andato sold out, come sarebbe stato prevedibile se fosse stato pianficato in un calendario senza bank holiday a ridosso, quello che si è radunato ieri sera sotto il palco non era certo un pubblico sparuto o risicato, anzi.
E’ un nutrito e vivace microcosmo internazionale, molto internazionale, giovane e preparatissimo quello che si è accalcato ieri sotto il palco del Circolo Magnolia. Non esagero ma per un’ora e mezza, Segrate è sembrata qualsiasi altra capitale della scena alternativa globale — Londra, Berlino, Toronto — tranne che Milano. È bastato poco, e non solo il pubblico, perché il Magnolia si trasformasse in un sottoborgo di Vancouver, in un’estate anticipata, in un festival indie d’oltreoceano. In una Milano sempre più affamata di musica dal vivo di qualità, la band canadese si propone come un KPI perfetto. E chi over 40 come me si sta chiedendo cosa richiami il loro nome rispondo che no mi spiace non si tratta del pop-up restaurant della serie TV Beverly Hills 90210 gestito dal mitico Nat Bussichio. Si tratta di torte metaforiche, frutti dal senso figurato, o una cosa simile insomma.

Si va quindi a festeggiare Magpie, il seguito di From 2 to 3 del 2022; un disco non nato facilmente come loro stessi dicono. Diremo di più…Inizialmente ispirati dalle sessioni di registrazione di Let It Be dei Beatles, come dal documentario Get Back di Peter Jackson, i Peach Pit cercavano un approccio simile. “Volevamo entrare in studio con un gruppo di canzoni che avremmo elaborato e scritto al volo: l’avevamo già fatto per dei singoli quindi ci siamo proposti di fare un disco in questo modo”. Ma dopo alcune sessioni in studio la band si è sentita creativamente bloccata. La cosa non stava funzionando per loro, ma è solo nella lontana Melbourne che ritrovano l’ispirazione. “Mi ha colpito il fatto che le gazze siano viste sia come buoni che come cattivi presagi”, dice Smith a proposito dell’uccello australiano (Magpie appunto!). Questa dualità ha ispirato la band. “L’album riflette questi alti e bassi, dall’heartbreaker ai nuovi amori e da luogo ad una specie di magia dolceamara”.
Ma cosa hanno di così magico questi giovani canadesi all’anagrafe Neil Smith (voce e chitarra), Christopher Vanderkooy (chitarra, lap steel e tastiere), Peter Wilton (basso) e Mikey Pascuzzi (batteria)? Prima di tutto la capacità di rielaborare l’indie-rock in chiave contemporanea, mescolando Beach Boys, Pavement e Beatles, il che li rende acchiappantissimi nel panorama attuale, tra i più giovani ma anche tra quelli che cercano nella nuova proposta indie la freschezza di sonorità non troppo cervellotiche e iperstrutturate.

La band ha presentato uno show precisissimo dal punto di vista musicale e una setist che ha abbracciato un pò tutto il loro repertorio, dai brani storici ai pezzi più articolati del nuovo disco, in un equilibrio perfetto tra introspezione e leggerezza, tra core indie-pop e incursioni che strizzano l’occhio allo psych-folk. Un set che ha soddisfatto i fan vecchi e nuovi. Suoni ampi e compatti, Chris Vanderkooy (da me ribattezzato il giovane Jack Black) e Neil Smith sempre calibrati e coordinati nel lasciare il passo l’uno all’altro, soprattutto nelle code, dove il primo si è lasciato andare spesso ad ampissime variazioni dinamiche e virtuosismi un pò tamarri. Il sound della band canadese è caldo, leggero, si è detto già, dolcemente nostalgico. Se il mondo fosse un luogo di giusti e l’estate dovesse avesse una colonna sonora, non sarebbe quella di Tony Effe e Capoplaza ma sarebbe quella dei Peach Pit: una miscela indie/pop/folk che fa venire voglia di viaggi in macchina su autostrade roventi, di bagni al tramonto, di birre gelate al parco e di corse in campagna, tra il fango burroso e l’erba che ti si infila nelle calze.
Non sono mancati momenti di frenetici cambi di dinamica e morbidezze ficcanti, con la band sempre capacissima di cesellare gli incastri ritmici tra basso e batteria. Neil Smith, si muove sul palco con un carisma dimesso e un pò cazzone, tra il divertito e il cucciolone, come se fosse sempre a un passo dallo scoppiare a ridere o a andare in down. Dice un sacco di cose, ma ahimè lo stretto accento ce ne fa capire la metà. “Give you The Best Show Ever” me lo ricordo bene, e mi piace assai. Insomma proprio come il loro nome, la band cela un cuore enorme e buono sotto strati di dolcezza e tenerezza infinita. In dieci anni hanno messo a punto la formula alchemica perfetta; ammorbidire la malinconia trasformando i dolori della crescita in veri e propri inni, e ieri sera ne abbiamo avuto dimostrazione. In fondo non sono che ragazzi tristi che cercano di trovare un significato recondito in questa vita faticosa, e lo fanno a colpi di chitarre surf. Perchè no?

Ma torniamo alla performance. Non c’è nulla di forzato nella loro presenza scenica: i Peach Pit alternano momenti di puro cazzeggio a incursioni strumentali raffinate, passando con naturalezza dal registro ironico a quello più crooner, mostrando un grande talento nel sapere organizzare arrangiamenti ampi e strutturati e con songwriting introspettivo, profondo e malinconico.
Il Magnolia vibra mentre i Peach Pit continuano a sfoggiare un carisma formidabile: la sezione ritmica tiene un groove morbido ma incalzante, mentre Chris e Neil giocano a passarsi le frasi musicali come in una jam tra amici di lunga data — cosa che, del resto, sono davvero. Bright indie guitar pop for everyone.
Tra i momenti di spicco la meravigliosa Black Licorice, che ha mandato il pubblico in delirio con i suoi riff serrati e la batteria nevrotica e graffiante di Pascuzzi, la bellissima e sognante Am I Your Girl e Magpie, dove la voce dolce e sonnolenta di Neil Smith si è fusa con quella del pubblico “we ain’t gonna get you outta here / no, we ain’t gonna get you out of here” a cui è subentrato un Vanderkooy in stato di grazia e si è preso la scena per uno degli assoli più ficcanti e viscerali del live.
In definitiva i Peach Pit al Magnolia hanno sicuramente toccato un punto di equilibrio magico: la band era in stato di grazia, il pubblico partecipe, l’ambiente perfetto. Peccato per la venue ancora al coperto (l’ultima sera così a Magnolia prima di smontarlo e dare il via alla stagione all’aperto). Per me che ho assistito dalle retrovie è sembrato più di un concerto. È stata una serata di appartenenza, di amici che si ritrovano, una festa tra adolescenti che si concedono il lusso di restare teen-ager per 90 minuti. Perchè i Peach Pit non suonano semplicemente brani, costruiscono canzoni esperenziali addosso al pubblico.
Questa è stata la loro magia: profumare di una strana e dolce intimità e nel contempo spruzzare effluvi di benessere travestito da spleen e malinconia. Una malinconia che sa di tardo pomeriggio, che sa di tramonto sul prato alla domenica sera, una malinconia che sa di torta e marmellata di pesche, quella che porta il loro nome, un dolce di cui non ti resta che l’ultima fetta.
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