Il disco è uscito. Un lavoro denso, dalle molteplici sfumature. Personale e sociale. Urgente. Prima domanda, a bruciapelo. Vi sentite “pieni” o “liberati”?
Pubblicare un album è un po’ una liberazione: nel nostro caso finalmente si concretizza un lavoro durato anni. Dall’altra parte, però, si è solo all’inizio del percorso…
“Mazapé” è intriso di contrasti, tematici e sonori. Un aspetto che sta al centro di molti percorsi musicali, in questo momento storico. Secondo voi come mai c’è questa urgenza? Qual è la funzione della musica oggi, per chi la fa e per chi la ascolta?
Non è una novità che la musica spesso rispecchi in qualche modo la realtà, che ora è quantomai incerta e contrastante. Molti sentono l’urgenza di descriverla, interpretarla o al contrario prenderne le distanze attraverso la produzione artistica. Rispondere a queste domande è difficile, perché chi produce musica, mai come nel 2024, è mosso dai più disparati intenti, dal semplice intrattenimento (devo solo far divertire il pubblico!) al desiderio di vedersi all’interno di un filone, fino all’impegno sociale e civile che in qualche modo, visti i tempi che corrono, sembra stia tornando al centro delle canzoni, anche se in modo ancora abbastanza marginale o con traiettorie per ora difficili da comprendere. Il pubblico come sempre fa le sue scelte, è passivo o al contrario molto attento e preparato. Sicuro è un ascoltatore più individualista che in passato: la musica raramente oggi funziona come collante sociale, forse il rap in qualche modo è riuscito a creare un movimento di produzione e di ascolto. In generale una grossa fetta di pubblico si perde nella saturazione o nelle proposte automatiche dei vari algoritmi e opinion leader.
È un album che parla anche della vostra terra d’origine, la collina “ammazza piedi”, un simbolo potente nel vostro immaginario. Quali sono le memorie, le esperienze o le sensazioni che vi legano a questo posto? E qual è oggi il vostro rapporto con le vostre origini?
La nostra sala prove è anche un piccolo studio di registrazione situato proprio a due passi da questa collina e qui abbiamo registrato gran parte del materiale. Io (Gio, voce e chitarra del gruppo) sono nato e cresciuto qui, ma per parecchi anni ho fatto il nomade in giro per l’Italia. Da Mazapé inizia il nostro “giro lungo la penisola”. Mazapé è un crocevia, una zona di confine. Siamo in mezzo al triangolo industriale, ma la natura è incontaminata perché non ci sono attività produttive. Al contrario, c’è un flusso costante di persone che attraversano la galleria che buca la collina in treno e in macchina in direzione Genova. Ed essendo così vicini sia al mare che alle città, ma anche all’inizio della pianura padana, da qui transita un po’ chiunque. Ad esempio, a inizio anni ’90, ancor prima che in altri luoghi, abbiamo vissuto una forte immigrazione di persone provenienti dai paesi dell’est Europa. La statale del Turchino e la linea ferroviaria determinano fortemente le storie di questo luogo. La mia bisnonna è stata una delle pochissime ragazze che durante la seconda guerra mondiale attraversavano da pendolari la linea per lavorare a Genova ed è stata testimone indiretta della strage del Turchino. A pochi chilometri da qui è nato Luigi Tenco e Bruno Lauzi trascorreva le sue estati proprio a due passi dal Mazapé. Fin da adolescente vado in treno allo stadio per vedere la Samp, i tifosi salgono ad ogni fermata e il Basso Piemonte diventa come una periferia di Genova: il viaggio dura quasi come Cologno-Milano Duomo. Insomma il bagaglio è ricco. Siamo in provincia, ma non per forza quella lugubre e meccanica che è nell’immaginario collettivo. Poi chiaramente quando ho compiuto 18 anni me ne sono andato per molto tempo e anche Lo Straniero all’inizio rappresentava un necessario distacco dalle proprie origini, in qualche modo oggi riconsiderate grazie ad altre prospettive.

“A mare” è una traccia quasi cinematografica. Come avete vissuto la creazione di questa canzone?
Il testo è stato scritto di getto in un pomeriggio di quasi cinque anni fa e da allora non è stato più modificato. Capita a volte che le parole si srotolino agevolmente andando a centrare il senso di una storia che non si è deciso a tavolino di raccontare ma che nasce casualmente. Il viaggio disperato di madre e figlia che attraversano il Mediterraneo è una vicenda tristemente consueta. Lavorando anche nel sociale da 15 anni ne ho sentite parecchie, ma non avevo mai pensato di portare qualcosa di simile e così concreto nei nostri brani. È stato un fatto spontaneo. Lo scenario sonoro acustico ci ha ispirato: in quel periodo, infatti, eravamo presi dalla world music, lavoravamo su un campione funk con diversi strumenti acustici e volevamo evitare la progressione fermandoci su un solo accordo e far ribalzare sopra le parole. Appena inciso il provino eravamo già convinti del brano nel suo insieme. Poi Fede Dragogna (che successivamente ha prodotto il brano) l’ha ascoltato dandoci feedback molto positivi, così ha rinforzato e dato ordine alle nostre idee rispettando l’idea originale del brano.
“Fuochi per la festa del paese”, invece, parla di un’occasione unica, totalizzante e quasi liberatoria, in un contesto buio e drammatico. In che misura vi siete ispirati a esperienze personali?
Come dicevo prima in questi luoghi, come altrove in Italia, abbiamo assistito a diversi flussi di persone provenienti un po’ da ovunque. Questa zona si compone come una costellazione di piccoli paesi rurali, ed essendo appunto un crocevia, da tre decenni non ha un’identità culturale e sociale così definita. Nei primi anni ’90 c’erano famiglie italiane e non che giravano qui intorno provando a sbarcare il lunario e a fine giornata sul tavolo c’era poco o nulla. Tanti hanno ripreso il viaggio, altri hanno trovato stabilità qui, i figli erano e sono rimasti nel tempo miei amici. Da una parte ricordo bene che per molti il contesto di quelle stagioni era molto precario, dall’altra c’era una grande solidarietà fra persone e un forte legame al di là della provenienza e dello status. In “Fuochi” abbiamo provato a ricreare un piccolo album di famiglia (o di paese) con i movimenti e i tratti di tante figure incontrate.
Quali sono state le sfide nel raccontare una storie anche intime e tragiche, mantenendo l’equilibrio tra empatia e autenticità?
Dentro le storie ti ci devi buttare, se vuoi essere onesto nel comunicare le cose devi conoscerle. L’approccio documentaristico ci piace, ma lasciando spazio intorno senza per forza travolgere chi ascolta. In altro modo l’immaginazione potenzialmente può portarci ovunque, ma va allenata e senza dei ganci con l’esperienza nel reale diventa innocua o fasulla. Così come il discorso sulla forma: allora è importante la palestra per chi scrive, l’esercizio. La revisione del proprio lavoro è un fase delicata, ma il nucleo, il “cuore che batte”, non deve mancare altrimenti si perde proprio l’autenticità.
La definizione della tracklist: quali scelte avete operato e perché?
La scaletta dell’album da metà produzione in poi è rimasta pressoché questa. Per noi da sempre è naturale una certa alternanza fra momenti ritmicamente dritti o concitati e altri dove dilatiamo, suoni sporchi e momenti eterei. La parte narrativa ha avuto un suo peso: questo viaggio ha delle coordinate precise. Parte dal mare e arriva alla collina, dalla provincia alla città attraversa spazi urbani e periferici.
“Via Domiziana” e “Via Ferrarese” sono più di semplici luoghi: sono quasi personaggi di un viaggio, capaci di interagire con la voce narrante senza usare mai la voce. Quale storia o significato personale si cela dietro queste tracce?
Su questa parte un’influenza l’hanno sicuramente avuta alcuni autori come Gianni Celati: i paesaggi sembrano parlare anche quando lo stile si fa estremamente asciutto e molto vicino alla cronaca. Sulla Via Domiziana sono passato tante volte e qualche anno fa avevo letto un reportage che mi aveva colpito parecchio. La sua parte più degradata diventa una terribile routine quotidiana di sopraffazione. Questa canzone è anche un piccolo tributo alle mie origini campane e alla semplice speranza di uno sguardo dalla finestra che ha coltivato fino agli ultimi giorni la mia giovane zia Carmen scomparsa recentemente. Via Ferrarese in altro modo rappresenta il desiderio di continuare a viaggiare, due amici in un luogo a loro estraneo vanno in senso opposto rispetto a un flusso di persone. Si perdono, parlano con chiunque, si affidano all’istinto.
Avete menzionato un cambiamento nel vostro approccio compositivo. Potete raccontare come è nato questo nuovo metodo di lavoro e quali sono stati i suoi effetti sul risultato finale?
Siamo nati come un gruppo con una marcata matrice elettronica, per anni abbiamo smanettato su synth, software e campionatori. Anche nei primi dischi un brano poteva nascere chitarra e voce poi però veniva ripassato con un approccio produttivo di quel tipo. La nostra formazione è su strumenti tradizionali e dopo anni, complice il cambio di formazione, sentivamo l’esigenza di tornare a lavorare fin dal principio con chitarra, basso e batteria, limitando l’uso dell’elettronica. Il risultato ha un respiro diverso dai precedenti lavori e a noi restituisce uno scenario meno rigido e più appagante.
Le collaborazioni nella produzione hanno avuto un impatto rilevante. Come siete cambiati in questo processo e come guardate a Lo Straniero di ieri?
Le collaborazioni in alcuni casi sono state decisive e hanno portato entusiasmo, non avevamo mai lavorato con tanti musicisti tutti insieme. Ognuno si è inserito in modo naturale nel processo creativo e nell’arrangiamento. Fede Dragogna e Mattia Cominotto si sono divisi il lavoro di produzione con noi, restando in sintonia anche nei momenti più critici essendo loro due già molto in linea artisticamente e umanamente. Gli ospiti hanno lavorato con personalità prendendosi lo spazio opportuno senza grosse indicazioni da parte nostra. Le collaborazioni dovrebbero avere sempre questo requisito di naturalezza.
Come vorreste fosse il primo ascolto di “Mazapé”?
Suggestivo!
