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Reportage Live

Guida sentimentale al Mad Cool 2024. Giorno 2: nella vita siamo tutti fan a un concerto dei PEARL JAM. Innamorati impossibili.

Arriviamo al secondo giorno della nostra via Crucis verso la coscienza della propria condizione: esatto, e nessuno vuole starci. Soprattutto se a ricordarcelo c’è un vento caldo, 40 gradi all’ombra, i Keane e i Pearl Jam in tour commemorativo e Paul Kalkbrenner a chiudere con la nostalgia da Berlin Calling.

Foto Credits Mad Cool | Andres Iglesias

Articolo di Marzia Picciano

La legge del contrappasso vuole che dopo l’euforia annalisiana (scherzo) del troncare qualcosa ci sia un momento di caduta, la cosìddetta sbornia triste, però qui al MAD Cool 2024 con 40 gradi all’ombra sembra impossibile avere una parvenza di brillitudine perché stiamo evaporando qualsiasi liquido abbiamo in corpo e no, non sarà la birra spagnola a rilassare le nostre sinapsi ancora in botta per la lezione di vita dualipiana, anzi è l’approccio grave corganiano che sta prendendo il sopravvento. Oggi si riprende, dove finiremo? 

Il giorno due della nostra Passione secondo RockOn nella Bibbia dell’andare avanti a colpi di concerti prevede quello che forse è lo zeitgeist di tutti i grandi amori, e casca perfettamente a pennello con il day after la nostra voglia di fare le valige e scappare, ovvero: la nostalgia di casa, il guardarsi indietro, la morsa nello stomaco, cosa stiamo lasciando e perché (già, perché?). È la giornata dei Pearl Jam.

Già dalle cinque del pomeriggio si accalcano sotto il palco principale del MAD Cool. Se esistesse un girone infernale per loro, i fan di Eddie Vedder, sarebbe piuttosto difficile individuare la pena dedicata, ma dato che la stavano per soffrire davvero (i PJ hanno cancellato diversi concerti a causa dei problemi di voce del loro frontman, un disastro per il loro Dark Matter World Tour che si conclude proprio nella penisola iberica in Europa) siamo clementi e non ne immaginiamo altri. Invece la serata è salva, e io li vedo intorno a me, spuntare ovunque con le loro magliette, un memento mori costante tanto quanto il pensiero del tuo dolore che stai disperatamente cercando di tenere a bada. Esatto, perché per i Pearl Jam si tratta di amore, un amore impossibile, che va avanti per i quasi 60 di Vedder, o dacche il tuo cuore a iniziato a pulsare per quello di un’altra persona. Ma come sappiamo bene, fino al giardino degli ulivi è un percorso a tappe, come quello di questo 11 Luglio nella biosfera circense del MAD Cool.

Larkin Poe, foto di Javier Bragado

Iniziamo puntuali alle sei meno venti con le Larkin Poe. “Le” perché il cuore pulsante di questa band sono le sorelle Rebecca e Megan Lovell di Atalanta, Georgia, anche se loro ci tengono a dire che sono venute all along the way from Nashville. Sarà il capello rosso e l’occhio azzurro, sarà che c’è talmente tanto denim e tanto blues che onestamente più che Madrid mi sembra di stare a Stars Hollow, senza Tegan & Sara ma con slides drammatici quanto l’impatto di una serigrafia di Milo Ventimiglia sulla me adolescente – e ci siamo capite, noi femminucce. Ci allontaniamo dalle promesse del blues che hanno settato però la chimica del nostro cervello verso i mood ormonali di una quindicenne e andiamo a fare esperienza di musica, cercando di scacciare dal campo visivo magliette e pensieri più neri.

Cosa c’è di meglio di una esplorazione dei palchi locali? Il mio obiettivo sono i Merina Gris, poliedrica band di San Sebastian che accorpa i sound di Lali Puna, Zola Jesus e un cantato alla Imogen Heap con un più violento elettronico pop (si, si definiscono così, cultori dell’anonimato con maschere diamantate alla Bloody Beetrots e autori di un “pop violento”). Il loro ultimo singolo Origami è un concentrato di esplosione e così è la loro performance. Qualcosa di diverso in cui perdersi,una totale follia con salti e calci alla batteria sotto la supervisione di una ieratica sintetizzatrice. Ci perdiamo comunque nell’hook sentimentale che ci offre la loro cover della regina indiscussa della nostalgia vera, quella della sbornia triste davvero, Dancing on My Own di Robyn. Che cantatiate in basco, castigliano o inglese alla fine se volete dire che qualcosa vi manca, tornate sempre alle parole di chi l’ha saputo prima e meglio di quanto immaginereste voi.

Approfittiamo della pausa da Dora esploratrice della musica per menzionare tra i validi elementi di questa giornata anche un’incredibile Dehaney Nia Archives per tutti quelli che pensavano che la bass & drums fosse morta. Col cavolo, è femmina, mena (metaforicamente, la consolle), e si autorproduce (dove? In UK, of course). E ovviamente fa remix di Charlie XCX perché non si dica che c’è qualcosa che è rimasto non Brat oggi (l’aveva già fatto a Glastonbury). 

Michael Kiwanuka, foto di Andres Iglesias

Ce ne andiamo con il cuore pieno di speranza insieme alla folla che ha condiviso i quaranta minuti più positivi del festival dopo aver visto i Motxila 21, collettivo stratosferico di ragazzi non normodotati che suona percussioni e fiati e che si è meritata anche l’encomio di Vedder più tardi (ahi, questo amore, torna sempre) e muoviamo verso il primo headliner, Micheal Kiwanuka

Il sole è implacabile, così il caldo. L’organizzazione pensa bene di innaffiarci. Ma è Kiwanuka che ci distrugge. Il corpo può reggere, ma la mente? La mente non è sempre nostra amica, eh già, diceva qualcuno. Il Bill Withers del new soul ha un nuovo album, Floating Parade, e la calma di un predicatore esperto davanti masse di fedeli. Sono lui e i suoi coristi/e tra cui spicca un’incredibile corista. Con Black Man in A White World e Hero entriamo in quell’universo che un po’ sembra fare le veci alla splendida Janelle, seppur qui animato non tanto dalla rivalsa della cultura oppressa quanto della fatica che l’amore e solo l’amore porta nella vita. Kiwanuka lo sa, è quello che muove il sole e le altre stelle, è nei volti della famiglia che stringe mani e manine nei visual alle sue spalle, è un messaggio universale che ci dà o toglie Solid Ground. Lo sappiamo anche noi e un po’ ci sentiamo vacillare. Sarà il sole, sarà che Final Days ci fa sentire un po’ condannati a una vita di ricerca di chi alla fine, vuole fare questi ultimi passi con noi e quelle maledette magliette non smettono di piazzartisi davanti la vista. 

Keane, foto di Javier Bragado

Andiamo verso il secondo headliner al palco della Comunidad di Madrid (ma quanto è figo che lo sponsorizzano?) per la tappa madrilena del ventennale di Hope&Fears dei Keane. Oh sì, siamo psicologicamente pronti per la band che ha segnato le colonne sonore delle serie TV più traumatizzanti della nostra maturità sentimentale: da The OC a Grey’s Anatomy, fino a quel monumentale compendio di luoghi comuni banalmente veri sulle relazioni che è La Verità è che non gli piaci abbastanza (dalla fine banalmente holliwoodiana). I Keane tornano, dopo tutte le difficoltà, Tom Chaplin è la quintessenza della vita e dell’inno alla gioia e della gratitudine, per me traumatizzata ancora dalle visioni disperatamente intimiste di Kiwanuka il mondialismo di Chaplin e della band che ha fatto del pop al pianoforte di Tim Rice-Oxley una rivalsa per il dopo Take That nello scenario UK (ma quante band UK ci sono qui? E quante reunion? Ma quanti anni abbiamo? Chaplin è bianco!) forse non lo digerisco benissimo, ma tempo pochi pezzi e sono nella mia piccola epifania di mezzo festival. Finalmente. E alla fine cedo alla richiesta di Chaplin di trovare il mio inner Freddy Mercury e canto scatenata.

PearlJam, foto di Javier Bragado

È così. Ci voleva un pop d’antan come non lo fanno più per ricordarmi che alla fine siamo tanti piccoli atomi in contrazione che si spremono insieme per tirare fuori il succo della loro esistenza. La membrana della mia resistenza si rompe sui versi di Yeats a cui si ispira A Bad Dream, e anche se non sono un soldato sul campo di guerra, sappiamo bene delle nostre battaglie, e certo non saremo morti e sicuramente nemmeno così importanti, ma nelle aorte del mio cuor si stringe un soffio che mi dice che sono sarebbe così male se al mio risveglio deponessi le armi e fossi al mio fianco.

Liberata dall’ossessiva compulsione dei pensieri dei pezzi che perdo dietro di me, cambio rotta e gli vado incontro definitivamente, ai Pearl Jam, anche se si fanno attendere. I fan sono finalmente liberati anche loro della disperata attesa di una intera giornata di calura centro iberica (e se non è Passione questa) e per ora mi stanno più simpatici. Abbiamo fatto pace. E Vedder canta. Più di mezzo secolo, nella sua mise così californiana e voglia di stringere mani al pubblico non gliene darei di più di quaranta – del resto il vero amore non invecchia mai. Apre rude con Lukin e va dritto al sodo, mi spezza con Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town, mi intriga con Dark Matter.

Pearl Jam, foto di Andres Iglesias

Ha una bottiglia di vino in mano e si ostina a parlare (con tanto di traccia) in spagnolo, dice che qui siamo tutti amici e fratelli. Eddie, non so se io sono della tua famiglia, però è stato bello provare a esserlo per un momento, parte di qualcosa, qualcosa che fa pace con sé stesso. Del resto, cosa sono i Pearl Jam se non i romantici del grunge che vincono contro le tenebre combattendole con la grazia ombrosa delle tenebre stesse? Oh Eddie, abbiamo sognato tutte a colori, e tutte in rosso, e non riusciamo a trovare un uomo migliore per noi. Grazie per avermi spezzato. Anche se l’acustica, per chi ha preferito stendersi per ascoltarvi e non morire sotto la calca, era decisamente poco buona.

Con la pace nel cuore che non mi aspettavo Vedder sarebbe riuscito a darmi (e invece), mi scuso con Greta Van Fleet ma vado a sciogliere i nodi alle arterie nel sound incosciente di Paul Kalkbrenner. Berlino deve essere un posto incredibile per perdersi non solo in sé, ma in quello che potremmo essere. E anche Londra, soprattutto quando Bonobo remixa i Radiohead, e tutto è nel posto giusto. Ma questa è un altra storia. Prima dobbiamo prendere coscienza di noi. Al giorno tre.

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Dall’Adriatico centrale (quello forte e gentile), trapiantata a Milano passando per anni di casa spirituale, a Roma. Di giorno mi occupo di relazioni e istituzioni, la sera dormo poco, nel frattempo ascolto un sacco di musica. Da fan scatenata della trasparenza a tutti i costi, ho accettato da tempo il fatto di essere prolissa, chiacchierona e soprattutto una pessima interprete della sintassi italiana. Se potessi sposerei Bill Murray.

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