Articolo di Umberto Scaramozzino
Ci sono concerti che scandiscono la vita urbana, diventando un blocco colorato nel calendario e intersecando le storyline di molti concittadini che per una sera condividono uno stralcio di vita. Poi ci sono sere che non si limitano a questo meraviglioso e necessario lavoro, ma si tramutano in marker temporali, non tanto per l’attività di una città, quanto per la sua storia. Almeno quella relativa alla musica dal vivo. A Torino questo è successo domenica 28 aprile, serata di convergenza tra due mondi culturalmente fondamentali per il territorio: da un lato abbiamo il Torino Jazz Festival – prestigioso, istituzionale – dall’altra Jazz Is Dead – sperimentale, alternativo. Due rassegne che condividono una parola magica nel nome, esprimendola quasi per antitesi, e che si incontrano là dove queste due anime si fanno persona: John Zorn, live con il suo New Masada Quartet.
Chi è John Zorn andrebbe insegnato a scuola, di certo non in un live report, ma se proprio dovessimo compendiare il suo contributo artistico in poche parole potremmo dire che è un gigante della musica contemporanea. Per produzione, avanguardia, sperimentazione, rilevanza, generi toccati, sfiorati o modellati, ci sono davvero pochissimi artisti in grado di competere con il compositore e musicista newyorkese. John Zorn torna dunque a Torino dopo molti anni di assenza e lo fa in grande stile, che poi è anche l’unico stile che conosce. Lo fa portando sul palco dell’Auditorium Giovanni Agnelli di Lingotto una performance di poco più di un’ora, ma dall’intensità di una stagione.

La chitarra è del jazzista Julian Lage, uno dei più cristallini tra i talenti odierni, espressione di massima eleganza sul palco, mentre sfoggia la sua tecnica disumana. Vicino a lui c’è il contrabbasso del suo amico e collega Jorge Roeder, musicista peruviano ormai da anni universalmente considerato uno dei più versatili ed espressivi bassisti jazz del mondo. Lo stesso Zorn non resiste alla continua tentazione di concedersi momenti di riverenza nei suoi confronti, con il pubblico che non può fare a meno che amplificare e restituire al suo catalizzatore delle ovazioni degne di un gol in rovesciata in finale di Champions League. E poi c’è lui: Kenny Wollesen, fedelissimo batterista che ha affiancato John Zorn nel corso dei decenni e che ancora oggi condivide con lui gli stessi impulsi.
John Zorn, dal canto suo, inchioda alla poltrona sia chi ha la fortuna di vederlo, finalmente, per la prima volta – e in alcuni casi si tratta prettamente di questioni anagrafiche – sia chi ha avuto il privilegio di seguirlo negli anni e si ritrova ancora una volta, parecchi decenni dopo le prime magie, a stupirsi di fronte a una tale potenza creativa ed espressiva. Andare sul tecnico e provare a raccontare questa sessione monumentale sarebbe inutile e patetico, anche perché la nota più interessante di tutta la serata riguarda il lato umano, sprigionato da un settantenne che sul palco sembra irrimediabilmente assuefatto a ciò che lui stesso contribuisce a creare.
Si diverte, si esalta, partecipa e poi si astrae per godere lui stesso in quanto spettatore del suo ensemble. Tutto questo John Zorn lo fa con la naturalezza di chi è nato per nutrire e nutrirsi di musica. Batte il cinque, esulta, indica i suoi comprimari con la frenesia che lo contraddistingue e che genera una fortissimo imprinting con il suo pubblico. In effetti, una standing ovation così sentita ed esplosiva si vede raramente, anche in contesti così esclusivi.
«Ora si fa sul serio», diceva Alessandro Gambo, direttore artistico del Jazz is Dead festival, annunciando la sua data più prestigiosa. La sua diventa una tagline dell’intera serata, che in qualche modo setta un nuovo standard per il jazz a Torino. Uno standard probabilmente insuperabile, almeno fino al prossimo passaggio di John Zorn.
