Articolo di Marzia Picciano
Poche cose sono difficili come scrivere delle cose che ami. Quindi capirete la sfida per la sottoscritta nel provare a raccontare cosa è successo ieri, 2 giugno, al Carroponte, quando Matt Berninger e i fratelli Dessner e Devendorf, in arte i The National, sono saliti su un palco per parlarci di loro dopo la doppia uscita di First Two Pages of Frankestein and Laugh Track in quella che è sembrata una pausa dal diluvio comandata dal cielo: let them play, e grazie a Dio.
C’è qualcosa di profondo e indecifrabile nell’essere, purtroppo o per fortuna (e in nessuno dei due casi, a caso) fan del gruppo di Cincinnati. Basta guardarsi intorno per capirlo: nascosti nelle nostre palandrane da alluvione, non possiamo far finta di essere semplicemente dei simpatizzanti delle liriche di un gruppo con un’insana passione per la psiche dell’americano medio nella sua età euripidea (ci sarà un motivo per cui l’uomo che ha portato la nozione di late show americano nel mondo si è profondamente innamorato di loro e li ha scelti per il suo ritorno in tv?), per poche semplicissime ragioni.
Prima fra tutte: ti trapanano il cuore, passando dalla mente. Iniziano settando il mood dell’intera serata, Once Upon A Poolside, e già si scende dal gradino del superficiale a un abisso che non conosciamo, o forse si e preferiremmo di no. In realta non c’è un pezzo, in tutto l’altalenare quasi alcolico della loro produzione, che non riesca a generare in noi una sensazione di sprofondamento, il che potrebbe anche significare che non c’è leggerezza, ma per quello possiamo fare una breve indagine sulla fan-base e scopriremmo che siamo tutti cancerini emotivi e complessati. I The National traducono in musica quello che Franzen ha provato a spiegare nelle sue 600 pagine de Le Correzioni: l’ineluttabilità dell’essere fregati e finiti dal caos che ci portiamo dietro e che non sprigioniamo, chiusi in una gabbia d’oro di necessità. Un velleitarismo sentimentale, una responsabilità politica ferma alle idee, e la cocente consapevolezza di non poter essere parte di questo C’è un liberatorio infinito nell’urlare “’’cause I am evil” di Conversation 16, perchè si, siamo persone orribili, loro lo sanno e dobbiamo saperlo anche noi, ed evviva. Ma non c’è solo questo.

La seconda ragione è che essere amanti della band capitanata dal fascino borghese malato di Matt Berninger rappresenta un atto di fede. Mancavano dall’Italia dal 2022, ed è di fatto qui a Milano che riprendono il tour come artisti singoli (hanno iniziato pochi giorni prima al Primavera Sound con un concerto al RazzMatazz e poi nella line up di Parc Del Forum, ma questo è il primo show solo, di fatto), e passeranno da Roma stasera prima di prendere la via del resto d’Europa. E sono venuti da un pó tutto il mondo per la data di Milano. Se questa non è fede?
Sarà la presenza di Luigi (!), sarà che con l’Italia hanno un rapporto anche più intimo per ragioni personali, ma insomma, posso dire che lo show di ieri non ha deluso le aspettative (anche se non hanno suonato Apartment Story nè Slow Show, mannaggia a loro), anzi è stato un bel riscatto verso chi li dava per spacciati. Berninger è finalmente tornato al suo splendore folle e plastico, quasi non aspetta che i fotografi vadano via dal pit che con Demons si lancia sul pubblico per ghermirlo, a portarlo nella sua pazzia, con buona pace dello staff di palco e dei suoi capelli (se li è tirati quasi a strapparseli, giuro). Il suo umorismo è più tagliente, le sue invettive contro Trump e antiabortisti chiare come un memento mori. La voce è più roca, e se in alcuni momenti sembra mancare non posso non pensare che cavolo, è cosi che la canterei quella canzone (nel mio caso, l’abbaiare stanco di Abel), con le corde quasi spaccate dal dolore di dover dire certe cose. Berninger e tutta la band sono dentro fino all’ultimo millimetro di capello in quello che suonano e cantano, e questo è tangibile. Sono trasparenti, non dicono per dire. Dicono perchè come ufficiali a funzione liturgica, sono lì per farti pentire, piangere e perdonarti.

La terza ragione si nasconde dietro l’atto di fede. Quello che mi ha sempre colpito dei The National è la straordinaria capacità di saper andare a fondo senza affondare – o meglio, nei testi. Poche band parlano di depressione con la volontà di vedere come questa si trovi proprio nell’ordinario, dietro l’angolo di ogni doloroso affetto (Matt lo ha spiegato bene a quel signore dei late show di cui sopra, in questo video qui). Senza mai dimenticare che l’uomo è un animale politico, del resto, come la consideriamo quel fenomeno diremmo “elettorale” di Mr November, quella che voleva essere la storia di un candidato che non voleva esserlo (leggi: John Kerry), così perfettamente in linea con le presidenziali di fine anno?
Berninger scrive e compone con la moglie Carin (si, quella di Carin At The Liquor Store, una di quelle perle concesse a pochi show), ha affrontato in questi anni una caduta personale che ha quasi portato allo scioglimento della band e poi si è risolta in ben due album (belli, e poteva essere una catastrofe) in un anno, un’overdose di parole per chi riesce ad attraversare tutto il suo nero, trasformando il grigio in qualcosa di bello. E io glielo invidio tantissimo, o forse vorrei sapere solo come si fa: come faccio diventare quello che mi è insostenibile qualcosa di cosi precisamente perfetto da farlo capire a tutti?
Perchè ció che è spaventosamente vero è che il dolore, la sofferenza e gli spettri della famiglia, del divorzio, pazzia, insicurezza, la speranzosa voglia di (s)chiudersi alla vita in ogni tasto di Bryce, la triste epicità delle trombe e l’eterna marcetta nascosta in ogni loro pezzo condividono è perfettamente umana, e perció non sconosciuta a nessuno. Sarà anche per questo che in questi ultimi anni hanno saputo lavorare, se non guidare altri artisti nella realizzazione delle loro fatiche più introspettive (Aaron Dessner ha prodotto Ed Sheeran e insomma, esiste un sodalizio con Phoebe Bridgers e più recentemente con una certa Taylor che muove un punto di PIL americano quando va in tour) e sono arrivati oggi a essere non tanto band spacca titoli di giornale ma come tipi seri, di contenuti, non un altro prodotto della New York wave in completo e aplomb radical chic.

E sopratutto è qualcosa di riconosciuto in chiunque li ascolti. Il momento in cui si sta per perdere tutto e tutti in I’ll Still Destroy You in cui l’unico obiettivo per non far cadere tutto è provare a stare in contatto con qualsiasi cosa si è in contatto. La certezza in Laugh Track (dice Matt, il suo pezzo preferito, ed anche una delle migliori performance di ieri) di sentirsi percepiti come dei totali disastri e la tranquillità con cui i nostri sorrisi stanno per crollare. Morire dentro mentre si recita la parte di una “white girl in a crowd of white girls in the park” in quella ballad d’amore per amori che vogliono tramortici in Pink Rabbits. Quando si conclude con quella che è la canzone che più parla chiaramente della presa di coscienza della fine di qualcosa, o meglio qualcuno, steso accanto a te nel mezzo della notte, About Today, con quel giro di chitarra che è la carovana mentale della tua nostalgia per ció che non riavrai più e sei condannato a perdere, non c’è anima che non lo abbia vissuto, non c’è nessuno che si sia chiesto con estrema lucidità, anche quando la sopportazione era alle stelle, quanto gli mancasse, quanto fosse vicino a perdere la sua controparte in una storia che si sgretola.
Quarta ragione: perchè ai The National e ai loro live bisogna sopravviverci. Si arriva alla fine che chi canta non è Berninger, sei tu, con il rito collettivo di Vanderlyle Crybaby Geeks cantata da tutti tranne che da loro perchè insomma, alla fine di tutto questo sei un adepto di una setta che porterà a sconfiggere tutti i mali che vivi, a farteli amici e raccontarvici grandi storie davanti a un gin tonic. E poi tutti a casa, e ricordiamoci: happy pride month. E noi siamo sopravvissuti, si, per ora. Non peró al processo che viviamo ogni giorno che ascoltiamo quelle canzoni.

THE NATIONAL – La scaletta del concerto di Milano
Once Upon a Poolside
Eucalyptus
Tropic Morning News
Demons
Don’t Swallow the Cap
Bloodbuzz Ohio
The System Only Dreams in Total Darkness
I Need My Girl
Conversation 16
I’ll Still Destroy You
Abel
Alien
Laugh Track
Smoke Detector
Day I Die
Pink Rabbits
Rylan
England
Graceless
Fake Empire
Space Invader
Encore
Cherry Tree
Mr. November
Terrible Love
About Today
Vanderlyle Crybaby Geeks

Marco
03/06/2024 at 17:39
Bellissimo pezzo, però una precisazione: i National mancanavano a Milano dal 2018, ma non dall’italia. Sono venuti nel 2019 all’Ypsigrock Festival in Sicilia e nel 2022 a La prima estate al Lido di camaiore!
Federico
03/06/2024 at 21:39
Non è dal 2018 che mancano ma da due anni (Camaiore 2022). Inoltre Matt ha sofferto di alcolismo per cui dubito fortemente che fossero gin tonic quelli che beveva, anzi c’è chi sostiene che il lancio dei bicchieri fosse emblematico della sua “disintossicazione”.
Marzia Picciano
03/06/2024 at 21:49
Grazie Federico, provvisto a correggere!