Articolo di Serena Lotti | Foto di Andrea Ripamonti
Un famoso saggista italiano una volta ha detto di adorare il caos, ma di detestare l’imprecisione. Non posso trovare una quote più adatta di questa per spiegare chi sono i Toy. Caotici e controllati. Deliranti e razionali. Psichedelici e sistematici.
E non si può dire che non si colga questa attitudine già dal titolo del loro ultimo album, Happy in the Hollow. E non si può nemmeno affermare che la cosa non si percepisca in maniera netta e assolutamente lampante appena li si vede dal vivo. Algidi. Crepuscolari. Freddi. Rigorosissimi. Austerità quasi vampiresca, tra cotonature, tagli destrutturati e uno sguardo un pò decadente e pallido.
I Toy nascono nel 2010, in una fredda giornata londinese, da mamma psych e papà shoegaze. Bambini modello muovono i primi passi alla scuola del kraut rock e del post punk iniziando ad emulare, come nella migliore delle tradizioni familiari, i cugini più grandi The Heartbreaks, The Vaccines e The Horrors, le cui affinità sono evidenti in termini di scelta di sound e genere musicale. Un training propedeutico verso la definizione netta dello stile che la band abbraccerà e via cosi fino al 2011, anno in cui portano a casa il primo lavoro collettivo Left Myself Behind un singolo molto easy listening, dalla forte connotazione indie e orgogliosamente brit. Nel 2012 con il vero album d’esordio, Toy, perfezionano nettamente i margini del loro stile e ottengono un vero gagliardetto con Join the Dots del 2013. Nel 2016, ormai promossi senza debiti, ricevono un bel pagellone 10 + chiamato Clear Shot e vanno tutti in gita in giro per l’Europa.
Con Happy in the Hollow del 2019 sono usciti dalla pubertà musicale affrancandosi dai faticosi tentatitivi di stile e dalle facili identificazioni e hanno consegnato un album a mio avviso davvero molto molto bello. Dritto ed essenziale.
I Toy arrivano sul palco dell’Ohibò senza platealismi, asciutti e silenziosi. Si guardano un pò intorno, attaccano. La scaletta sarà quasi interamente uno snocciolamento graduale dei brani dell’ultimo lavoro. Accolti con tiepidi ma sinceri applausi ci aspettiamo un sorriso, un saluto. Ma niente.
Parte Jolt awake. Nessuno è ancora caldo. In più i suoni non sono per niente fine tune. Il fonico deve intervenire più volte. Niente di quell’evanescenza promessa è ancora arrivata. E dire che hanno iniziato con un pezzo che ha una voglia drammatica di essere visionario e dove aspettavamo che le chitarre si liquefacessero. Nulla di tutto ciò. Tom Dougall ha un’espressione insensibile e un cantato secondario e rarefatto che non apre grandi scenari comunicativi al pubblico.
Con la batteria virulenta di Sequence One siamo un po più dentro le intenzioni ipnotiche dei Toy ma non è ancora abbastanza. Apprezzo comunque la loro ritrosia e aspetto pazientemente. Per ora la dimensione sonora rimane ancora poco aperta, le linee melodiche sono aride e la qualità dei suoni non aiuta a tenere fede alla promessa fatta. Ci perderemo nella gioia della vacuità anche noi prima o poi? Su Mistake a Stranger i Toy si fanno più dreamy e sembra che provino a tenderci la mano e a creare quell’empatia che ancora non è scattata. La linea indie qui è marcatissima e le atmosfere iniziano un pò a rarefarsi e a diventare quasi spettrali e ci ritroviamo subito a fare un passo indietro (ma in realtà stiamo andando avanti) con Fall Out of Love tratta da Join The Dots. Il tessuto space rock e progressive inizia a delinearsi nettamente. Le vediamo sul palco che le chitarre adesso sono calde, vediamo la faccia di Tom farsi un pò più morbida e meno astrale ma quel broncio che mette in risalto le sue labbra a canotto resterà scolpito quasi tutto il tempo.
Ed è qui i feedback sonori diventano insostenibili. Ci siamo ubriacati di effetti Larsen prima ancora che il live inizasse a prendere vita. Il fonico ripara ma ci scuote dal trip nel quale stiamo tentando di immergerci senza troppo successo. In chiusura recuperiamo la chiave della camera lisergica e devo dire che andiamo a finire in un loop delirante veramente figo. Che il viaggio abbia inizio.
Ed è qui che Panda Barron si mette a fustigare il basso e nel contempo prende posizione nel ruolo di singer senza farci rimpiangere la voce scazzata di Dougall, è lui il più tamarro di tutti e si sottrae alla regola del “be cool” al quale tutti sono devoti come discepoli.
Con Move Through the Dark siamo in pieno delirio alternative rock, strappi acidissimi con feedback continui e distorsioni cattivissime e siamo trascinati verso una delle punte massime del live: Motoring e The Willo. Su Motoring smettiamo di muovere la testa e scarrelliamo le gambe al ritmo di un alternative made in UK veramente scoppiettante.
The Willo invece è un crocevia tra vecchio e nuovo, tra quello che era questa psych band e quello che sarebbe voluta essere e quella che è. Un ritorno alle aridità degli esordi ma con dei tentativi di mitigare i geometrismi. Grasse sonorità goth-western, una batteria infiammata e chitarre distortissme ci fanno divertire veramente. Non dimentichiamo l’organetto che fa subito tributo a Ray Manzarek.
Con Last Warmth Of The Day i Toy ci fanno fluttuare dentro a trame dark e schitarrate folk con sorprendenti cambi di tonalità. Siamo in piena dimensione gotica con qualche effetto strategico a sorpresa: quel giro di chitarra che sembra un ossequioso endorsement a Girl, You’ll Be A Woman Soon di Urge Overkill è stupendo.
Andiamo in chiusura con la bellissima Energy, un allucinato viaggio adrenalico verso le pieghe più oscure dell’anima dei Toy. Abusiamo della parola psichedelia e diciamolo pure. Vogliamo cavalcare un arcobaleno e vedere conigli rosa mente indossiamo tute da astronauti e mangiamo fiori. Le influenze tribali cercano di spingerci un pò più dentro. Ma è una spintarella delicata. Nonostante la fatica e il sudore (mai volgare eh) dei Toy e le lunghe sezioni musicali prima della chiusura, potenti e disturbanti, il viaggio non si compie in pieno e ci sembra di essere arrivati solo ad una stazione di cambio.
In conclusione posso dire che tra ampie divagazioni psichedeliche e lo spettro sonoro dei Velvet Underground abbiamo assistito ad un live connotato da un’ottima prova musicale ma grande rigidità e poca presenza scenica.
Strizzando sempre l’occhio a quello che era lo stile degli esordi, trasognato ed evenescente, un pò ambient, un pò dream pop la pastura di base è sempre quella shoegaze/psichedelica con ritmiche kraut senza severità. Come dire. Salite in sella ma non calvalcate.
A Dougall è mancata la cazzimm del frontman e non parlo solo di atteggiamento sul palco. La voce è rimasta un pò anonima e non è stata in grado di caratterizzare troppo i pezzi. Troppo sintetica, troppo scazzata. Ma un plauso ai virtuosismo dei Toy musicisti va fatto. Le lunghissime code finali, le matasse aggrovigliate di sonorità sintetiche e deliranti e sterzate ritmiche sono un chiaro segno del potenziale assurdo di questa band. Il pallore consunto dei Toy in fondo ci è piaciuto, un’austerità quasi vampiresca, un attitudine algida, ma mancano di pathos, sono troppo ingessati pur sapendo attrarre a loro modo. Forse su un palco più grande chi lo sa. La loro follia ordinata di nonsense e raziocinio non ha convinto pienamente nella prova live. Nessun volo pindarico, un autentico tributo all’essenzialismo.
E alla fine davanti al banchetto del merchandise li becchiamo. Tom Dougall si spara le pose anche giù dal palco. Il batterista Charlie Salvidge ci sorride mestamente mentre beve una Peroni, non possiamo non notare la camicia sbottonata fino all’ombelico. Ci facciamo un selfie, sto per fare una di quelle imbarazzanti battute che amo “Say Toyyyyy”. Poi mi trattengo. Non c’è empatia neanche giù dal palco. Pigliamo il vinile limited edition e ce ne andiamo.
Clicca qui per vedere le foto dei TOY a Milano (o sfoglia la gallery qui sotto)
TOY – La Scaletta del Concerto di Milano
Jolt Awake
I’m Still Believing
Sequence One
Mistake a Stranger
Fall Out of Love
Move Through the Dark
You Make Me Forget Myself
Motoring
The Willo
Join the Dots
Last Warmth of the Day
Mechanism
Dead & Gone
Energy
