Articolo di Silvia Cravotta | Foto di Giorgia De Dato
“When one look into the darkness, there is always something here” scriveva oltre un secolo fa il poeta irlandese William Butler Yeats. Ma non tutti, tra i 12 mila accorsi ieri sera al Kozel Carroponte di Sesto San Giovanni per la data milanese dei Fontaines D.C. (dublinesi come Yeats), sono riusciti a vedere qualcosa, nel buio. Sold out di difficile gestione per la terza e ultima tappa del minitour italiano del quintetto, dopo la partecipazione al Sequoie Music Park di Bologna (anche qui tutto esaurito) e al Rock in Roma, all’Ippodromo delle Capannelle della capitale.
Con un afflusso di persone oltre le possibilità della location, tutti ammassati nel pit – pare che vi siano state avvistate pure forze dell’ordine –, ma soprattutto nelle retrovie. Il tutto in giornate di caldo irrespirabile, con gente in fuga dalla massa e il rischio di sentirsi male, cosa puntualmente successa a poca distanza da chi scrive. Senza considerare l’estrema difficoltà di riuscire a vedere qualcosa su un palco non abbastanza alto per chi, sotto il metro e 80, poggia i piedi sulla terra piatta. A salvare il salvabile, due grossi megaschermi che hanno permesso a tutti, più o meno, di vedere l’esibizione di Grian Chatten e soci.

Eppure, i cinque ci hanno provato a portarci in una terra migliore, come la “better land” di una delle più amate tra le loro canzoni degli esordi. Dopo l’esibizione dello scorso novembre in uno spazio forse più consono ai loro standard come il Fabrique, sono tornati circondati da un hype fortissimo, portando con sé l’energia feroce dei loro live, una tecnica musicale che con il tempo continua a migliorare, un frontman dal fascino magnetico, vero centro di gravità permanente della band con i suoi movimenti lenti alternati a scatti febbrili, ma soprattutto insuperabile nello stabilire una connessione con il suo pubblico, incapace di staccare gli occhi da lui e dalla sua lunga gonna a quadri bianchi e neri. Poche le parole dette durante il concerto ma è come se non servissero, il legame è quasi fisico, una forma di energia che dal palco passa al pubblico, e viceversa.
Quindi, ecco, le premesse c’erano tutte per un live fantastico, che in tanti si saranno goduti ma di cui molti altri hanno potuto avere una minima parte, visto che da diverse parti si è contestata anche la questione audio. A onor del vero, in posizione centrale e frontale, voce e strumenti si sono sentiti molto bene, considerato le dimensioni e il fatto di essere all’aria aperta. L’esecuzione è stata pulita e impeccabile, quasi come se fossimo in uno studio (a volte anche un filo troppo, un po’ di “sporcizia” dal vivo non sta male).

Spazio agli Shame
Ma prima di tutto questo, è toccato agli Shame. Attesi quasi quanto gli headliner, sono stati al centro di vari articoli sulla stampa italiana, che consigliavano caldamente di non perderli. Un ottimo antipasto lo avevano dato domenica scorsa a Firenze Rocks, dove hanno suonato prima dei Weezer in una bolla di calore che Inferno lèvati e fatto crescere le pile di token utilizzati da uomini, donne e bambini vicini alla temperatura di ebollizione. Con un po’ meno caldo e un background bellissimo fatto di luce crepuscolare, ma con il sole negli occhi che rendeva difficile la visione, i cinque londinesi guidati dall’istrionico Charlie Steen hanno replicato la loro performance ad alta intensità, tra impeto punk ed edonismo indie, con un pubblico perfettamente integrato nell’esperienza. Bretelle sul petto nudo e collarino da prete d’ordinanza, il frontman non si è risparmiato, e altrettanto hanno fatto i membri della band seguendolo a volte nelle sue corse sul palco, fino all’immancabile crowdsurfing. In scena le canzoni dei loro primi tre album fino all’esplosione di Cutthroat, crudo e arrogante anticipo del loro album omonimo in uscita a settembre. Steen arriva preparato in italiano con i suoi “ciao belli”, “grazie Milano” fino all’impegnativa frase “Ci vediamo presto, torniamo a novembre ai Magazzini”. Gli Shame sono considerati the next big thing della scena musicale britannica e ci vorrà poco per scoprire se sarà davvero così.
Una perfetta alternanza di brani vecchi e nuovi
A segnare l’arrivo del quintetto sul palco è Here’s The Thing, con i suoi riverberi frastagliati di chitarre ad accompagnare la voce quasi trattenuta di Grian, accompagnata dal canto corale del pubblico. Si salta tutti insieme su quello che sta diventando uno degli inni della band, l’atmosfera è già energica ed è solo la prima canzone. L’aria intorno cambia completamente sin dalle prime note della coinvolgente Jackie Down the Line, il tono si abbassa e diventa più cupo, la melodia sembra abbracciare il pubblico. Un altro salto indietro nel tempo con Televised Mind e i suoi giri ipnotici di chitarre sotto la voce di Gratten che, anche dal vivo, suona come un audio registrato.
È un percorso all’indietro, che nelle prime quattro canzoni rivisita i loro quattro album, partendo dal più recente ma è soprattutto una perfetta alternanza tra canzoni vecchie e nuove (peccato solo che sia mancata Skinty Fia, una di quelle che mantengono il cordone ombelicale con il loro Paese di origine). Quando si arriva a Boys in the Better Land, una delle canzoni di punta di Dogrel, è impossibile stare fermi e non andare dietro quel ritmo incalzante, il cantato veloce, la base potente. Non è da meno Roman Holiday, con la sua melodia agrodolce e quasi nostalgica sul senso di un girovagare perenne alla ricerca di chissà cosa e una linea di basso che non puoi scordare. Grian si toglie gli occhiali da sole ma li rimetterà su poco dopo. Il picchiare appuntito delle bacchette sui piatti lancia Big Shot, con la sua atmofera dark, che risveglia malinconie sopite chissà dove. Death Kink con la sua intro grunge e il suo sound viscerale ci strappa l’anima mentre altro non puoi fare che ondeggiare sul fraseggio di Grian che non sembra destinato a interrompersi.

La rassicurante It’s Amazing To Be Young, singolo 2025, viene accolta con un entusiasmo inaspettato, il sing-along è impossibile da evitare sul “life ain’t always empty” di A Hero’s Death. Big ci incalza e altrettanto fa Grian con il suo canto dove l’accento dublinese si sente, se possibile, ancora più del solito. Favourite, un po’ pop un po’ indie rock, chiude la prima parte e lascia il palco vuoto, con le facce del pubblico inquadrate sui megaschermi, dove saltella il cuoricino della cover di Romance (lo stesso che in dimensioni maxi, pende sopra il palco sotto la scritta luminosa Fontaines D.C.).
Il momento dei bis è affollato e mette in coda Romance, Desire e In The Modern World, tutte dal nuovo album. Fa un salto indietro di qualche anno con I Love You, una delle loro canzoni più politiche, indispensabile per lanciare il messaggio che stanno portando avanti da tempo, mentre tutti gli altri tacevano (dimenticavamo di dire che la bandiera di Gaza è stata sul palco per tutto il concerto, ben legata a un sintetizzatore). Sugli schermi compaiono in verde la scritta Free Palestine e, su sfondo nero, l’appello Israel is committing genocide. Use your voice, che raccoglie grandi applausi ma speriamo anche azioni. Starbuster è la chiusa perfetta, con il ritorno di Charlie Steen sul palco a caricare il pubblico. Una delle canzoni migliori degli ultimi anni, dark e moderna al tempo stesso, una nuova direzione che speriamo la band continui a seguire.
La serata non è stata facile. Ma, anche in condizioni difficili, i Fontaines confermano di essere una delle migliori band in circolazione. D’altronde, lo ha detto anche Sir Elton John.
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FONTAINES D.C.: la scaletta del concerto di Milano
Here’s the Thing
Jackie Down the Line
Televised Mind
Boys in the Better Land
Roman Holiday
Big Shot
Death Kink
Before You I Just Forget
It’s Amazing to Be Young
Hurricane Laughter
Bug
Nabokov
A Hero’s Death
Big
Favourite
Encore:
Romance
Desire
In the Modern World
I Love You
Starburster
