Articolo di Roberta Ghio | Foto di Virginia Bettoja
“Il desiderio è di riportare, oggi, sui palchi, quello che è stato il ’68 e gli anni a seguire, in cui da un parte c’era il potere di stato e dall’altra, in contrapposizione, hippies, pace, amore e artisti come Rolling Stones, Bowie, Lou Reed che suonavano facendo arte, cultura, che è quello che gli artisti devono continuare a fare. Con questo progetto De André canta De André sono come l’apostolo di mio padre, che porta in giro la sua parola. Perché quando lo conosci ti affezioni e non lo lasci più. È tachipirina per l’anima.”
È con questo concetto che Cristiano De André ci saluta tra la prima e la seconda parte del live di ieri sera all’ Alcatraz, nella data milanese del tour Storia di un Impiegato, concept album di Fabrizio De André del 1973, ripreso e rivisitato oggi dal figlio Cristiano e Stefano Melone.
Quello che penso appena entrata, guardando il palco principale del locale di via Valtellina, è: che stile! La scenografia è semplice, con pannelli verticali posti a fondo palco, sovrastati da fari per le luci. Colgo ordine e precisione nella disposizione degli strumenti: chitarre acustiche, elettriche, tastiere, pianoforte, batteria, sintetizzatori e bassi, posti a leggero semicerchio rispetto al centro palco, dove due chitarre ed un violino elettrico ci indicano dove starà Cristiano. La mia memoria non può che fare un balzo indietro nel tempo, all’ultima volta in cui ho visto Fabrizio dal vivo, al teatro Margherita di Genova. Ora quel teatro non esiste più, Fabrizio ci ha lasciato da tanto e ci manca. Ma lo portiamo dentro e non manchiamo occasione per ricordarlo.
Entrano a luci soffuse i musicisti, dando il via all’Intro de Storia di un Impiegato. Protagonista è la musica, profonda, grave. Solo dopo alcuni minuti fa il suo ingresso Cristiano, abbracciato dall’applauso del pubblico presente in sala. Il locale è pieno, affollato da fan di tutte le età. Imbracciata la chitarra dà il via alla Canzone del Maggio, mentre i panelli a fondo palco si animano con immagini di proteste e lotte, dal bianco e nero al colore. Non posso che riflettere su come quelle parole siano sempre così attuali a più di quaranta anni di distanza, ma non faccio a tempo ad elaborare le emozioni che sto vivendo, grazie a questo salto in un passato così presente, che un loop elettronico, come base alla chitarra acustica di Cristiano, mi ipnotizza e dal testo capisco che stiamo ascoltando La Bomba in Testa. I musicisti sul palco sono straordinari. Difficile rendere giustizia con parole, alla bellezza degli arrangiamenti di ogni singolo brano, che esaltano in chiave rock elettronico quei testi così intensi, talvolta trasmettendo disperazione, come nel finale strumentale de La canzone del padre, talvolta alleggerendo la drammaticità del contenuto, come ne Il Bombarolo, resa con un ritmo allegro, cadenzato, che fa pensare ad una marcetta, mentre alle spalle scorgo passare Bomb Love di Banksy (la bambina abbracciata alla bomba) ed altre immagini di street art del rivoluzionario artista britannico. Non mancano anche momenti di forte impatto psicologico come su Sogno Numero Due in cui l’imputato Cristiano è sotto processo, in ginocchio, davanti ad un giudice fuori campo. In questo sali scendi di tensione emotiva, in cui intensità e bellezza sono le parole chiave, arriva il brano probabilmente più conosciuto dell’album Verranno a chiederti del nostro amore, la poesia che ti esplode dentro, in un asciutto assolo di Cristiano al pianoforte, in cui ogni nota arriva diretta alle corde dell’anima.
Lasciato Storia di un impiegato, volgiamo verso la seconda parte del live, in cui incontriamo altri grandi successi di Fabrizio, come ‘A Çimma, che per chi è genovese come me, non solo è un inno, ma chiama ricordi persi nel tempo, di tradizioni nella cucina di casa e mi dà modo di riprendere il mio dialetto; di dialetto in dialetto ci rallegriamo con il ritmo di tarantella portato da Don Raffaè, per piombare poi nel silenzio ecclesiastico imposto da La domenica delle Salme. Macinando poesia ed emozioni, ci addentriamo sempre più nel live, quando in assolo di chitarra e battimani, chiesto dalla band, ascoltiamo il Testamento di Tito e mi stupisce quell’arrangiamento così minimale, ma mano mano che vengono recitati i comandamenti, uno dopo l’altro entrano chitarra acustica, tastiera, batteria, basso, la chitarra elettrica prende il posto di quella acustica creando così un crescendo esaltante. Istintivamente ci guardiamo intorno con sguardo che sembra chiedere al vicino “ma cosa abbiamo appena ascoltato!?” tanta è la bellezza e confermiamo lo stupore per la versione di Quello che non ho, che dopo un inizio ipnotico ritmato dal battimani, sfocia nel rock che non ti aspetti. Siamo pronti per il gran finale, con l’immortale Crêuza de mä dedicata a Genova e cantata da tutto il pubblico sommessamente, come a non disturbare e a non invadere lo spazio riempito da quanto arriva dal palco. Ma non è finita, immancabile la festosità del ritmo de Il Pescatore per concludere con la seconda uscita che vede Cristiano al pianoforte, coadiuvato dalla chitarra di Osvaldo Di Dio, salutarci con una intima e toccante La canzone dell’amore perduto.
A fine live sono come un po’ svuotata e meravigliata dalle tante sensazioni vissute. I testi, le poesie di Fabrizio fanno bene all’anima e Cristiano ha saputo rinnovarle e renderle attuali, confermandone la potenza e la passione. Il pubblico che ha conosciuto Fabrizio c’è ed ora, grazie all’apostolo, conta tanti nuovi fan, che possono godere di concerti di altissimo livello come quello di ieri sera. Tachipirina per l’anima.
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CRISTIANO DE ANDRE’ – Scaletta del concerto di Milano
Intro
Canzone del maggio
La bomba in testa
Al ballo mascherato
Sogno numero due
La canzone del padre
Il bombarolo
Verranno a chiederti del nostro amore
Nella mia ora di libertà
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‘A Çimma
Megu megun
Don Raffaè
La domenica delle salme
Smisurata preghiera
Khorakané
Disamistade
Testamento di Tito
Amore che vieni
Quello che non ho
Fiume Sand Creek
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Crêuza de mä
Il pescatore
La canzone dell’amore perduto
