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Reportage Live

AMERICAN FOOTBALL: il Millennium Bug del Midwest Emo

Articolo di Umberto Scaramozzino | Foto di Davide Merli

Immaginate di essere appena ventenni e di trovarvi a Urbana, Illinois, pronti a mettere su una band. American Football, questo il nome. Non male, eh? Così bello da usarlo anche per il vostro primo album, pubblicato due anni dopo la fondazione. Giusto il tempo di farlo uscire, suonare qualche concerto e si sbaracca già tutto. E questo è quanto: nulla di più per rendere quel nome, American Football, un cult.

Stacco. Vi ritrovate un quarto di secolo dopo, anagraficamente al punto in cui molti vostri coetanei affrontano crisi di mezz’età, con una reunion consolidata da qualche anno e altri due buoni album in saccoccia. La vostra è di nuovo una band, con tutti i crismi del caso. Eppure, la forza motrice è ancora quel disco self-titled, il cui venticinquesimo anniversario manda quasi sold out un grande e importante club dall’altra parte dell’oceano. In Italia, per la precisione all’Alcatraz di Milano. E vi chiedete: “ma come ci siamo arrivati fin qua?

D’accordo, fatta così è fin troppo semplice. La verità è che a guidare gli American Football non ci siete voi, non ci sono io, ed è impossibile immaginare qualcuno al posto di Mike Kinsella, cantautore inimitato perché inimitabile. Cap’n Jazz, Joan of Arc, Owls e soprattutto Owen – il moniker intorno al quale ha costruito una meravigliosa carriera solista – sono solo alcune delle sue altre vesti artistiche che, sia dal passato che dal futuro, hanno sempre orbitato intorno a quel progetto di fine millennio. American Football è dunque uno dei dischi più seminali del cosiddetto Midwest Emo, movimento-genere tornato tanto in voga in questi anni, perché nato dalla mente creativa di uno dei più interessanti e incatalogabili cantautori degli ultimi decenni.

La serata all’Alcatraz comincia con Five Silent Miles, traccia conclusiva del primo EP (1998) – anch’esso self-titled, ovviamente – che setta il tono e introduce il segmento fondamentale della scaletta l’esecuzione integrale del disco d’esordio. Si parte dal secondo brano della tracklist, The Summer Ends, che fa già scappare qualche lacrima col suo testo striminzito ma ermetico, cantato a gran voce da un pubblico in piena catarsi. Con Honestly? e For Sure qualche coraggioso si lancia anche in un crowd surfing estrinseco, su una platea che ondeggia pacata, ma pur essendo rapita dagli arpeggi non manca di alzare le mani e accompagnare quella follia liberatoria. I continui cambi di tempo, nei quali le melodie malinconiche si intrecciano con lo spirito jazzistico della band, sono lo sfoggio di un dominio assoluto sugli strumenti, in una prova di invidiabile disinvoltura.

L’articolo continua dopo la fotogallery di American Football in concerto a Milano che puoi sfogliare qui sotto

American Football

La prima traccia dell’album, la più attesa, arriva solo a fine set, come vero e proprio manifesto emo che pone il sigillo più emozionante sull’anniversario. Never Meant è l’essenza del disco, è la luce che proviene dalla finestra dell’artwork, talmente iconico da spingere i membri della band e la sua etichetta a comprare l’edificio protagonista della foto per salvarlo da fine certa. Si strappa qualche corda vocale, si spezza qualche cuore ricucito alla buona in questi ultimi cinque lustri e si arriva all’ultimo set, con alcuni dei migliori brani pubblicati dal combo statunitense in questa sua seconda vita artistica. Spiccano Where Are We Now?, Uncomfortably Numb e la bellissima Doom in Full Bloom in chiusura, a riprova di un gran repertorio che non deve necessariamente vivere nel passato, ma che da esso scaturisce.

Gli American Football, senza volerlo, sono stati il Millennium Bug del Midwest Emo. Chi l’avrebbe mai detto? Non Mike Kinsella e soci, convinti che il progetto American Football sarebbe stato una meteora, che avrebbe attraversato l’atmosfera del mondo della musica per poi non lasciare più traccia. Giusto qualche distratto con lo sguardo rivolto all’insù avrebbe notato la scia luminosa, si sarebbe meravigliato per qualche secondo e avrebbe dimenticato. Così è come forse pensavano sarebbe andata, ignorando le diverse intenzioni di quella manciata di canzoni. Il frammento di un corpo celeste dalla traiettoria improbabile, entrato in una splendida collisione col pianeta per poi lasciare un profondo cratere, pronto ad accoglierci tutti, ancora oggi, venticinque anni dopo.

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