“Hey li vedi quelli? Sono Italiani!”. Scommetto che l’affermazione verrebbe del tutto spontanea durante un live dei The Fire all’estero, senza dissimulare il proprio orgoglio davanti a un interlocutore (che fa una semplice equazione mentale: Italia = Pavarotti) a dir poco attonito. Già, perché il sound di Olly Riva e soci è tutto fuorché maccheronico, con influenze artistiche neanche lontanamente accostabili alla solfa pop dei nostri connazionali. Chi ha visto personalmente di che pasta sono fatti prima di Deep Purple, Iggy Pop o Alice Cooper lo sa bene, e ne avrà una riconferma con Supernova, il loro terzo disco fresco di pubblicazione.
Spogliati ormai del tutto dei rimasugli punk del passato, i brani si concedono completamente a un rock melodico più mainstream, facendo leva su strofe di facile memorizzazione, ritmi power e spendibilità commerciale. Gli ex Shandon/Madbones mettono in chiaro le cose con il singolo di lancio, Follow me, brillante derisione delle false conoscenze e dei “love at first byte” sui social network, che si avvale della collaborazione di Alteria, nota VJ nonché voce dei Nomorespeech. Strizza l’occhio alle emittenti radiofoniche anche il filone delle chicche più azzeccate e orecchiabili: Claustrophobia (difficile non scambiarla per un pezzo dei Fall Out Boy), See you next time (analoga ai sognanti riff di Angels and Airwaves) e la funambolica Paralyzed, che attacca alla Snow Patrol e prosegue in un dolce flusso che ricorda le creazioni di Jared Leto & Co. In Supernova non manca comunque il richiamo all’alt-metal, come la suggestiva atmosfera goth creata da Out of Here nello stesso solco dei Lacuna Coil (riproposta in lingua italiana in Tu sei solo mia) e gli urli da headbanging di Pino Scotto nella graffiante bonus track Business trash. Buoni anche la verve e gli hey-hey di Dynamite, riconducibili ai vecchi Bon Jovi di Keep the Faith.
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[/one_fourth]In questo repertorio così sfaccettato e denso di dettagli sorprende dunque la banalità di canzoni martellanti come Waltzin’ Monnalisa o Supernova, continua e scontata tiritera di ritornelli in chiave The Rasmus. Non si capisce poi dove voglia andare a parare la band con Just can’t get enough che (peccato per l’impeccabile potenza degli urli del frontman) svolge solo una funzione impinguativa, o con l’amalgama nu metal di Mr. Pain.
La gavetta è finita: l’emancipazione dei The Fire, un gruppo nato in origine senza un disegno (né un nome) preciso, è completa e questo terzo album in studio ne è sicuramente l’espressione definitiva. Nemmeno i detrattori del genere potrebbero obiettare sull’elevato livello qualitativo a cui il nostro apparato uditivo è esposto ma, ciononostante, Supernova non conquista fino in fondo. È un prodotto d’export 100% Made in Italy ma senza certificazione DOP: i dodici pezzi radio-friendly che lo compongono, come abbiamo visto, potrebbero legittimamente essere confusi con molte produzioni della scena alt-rock a stelle e strisce, un fattore che se in patria potrebbe considerarsi pioneristico, in altri Paesi è roba già sfornata in tutte le salse.
Insomma, questo disco farà indubbiamente gola ai teenager emo e non dispiacerà nemmeno a chi conserva ancora la maglietta degli Shandon in qualche recondito angolino dei suoi cassetti, ma non brillerà di luce propria come una supernova nel firmamento del rock.
di Karen Gammarota
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