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I Deaf Kaki Chumpy si sono chiusi in una casa in mezzo all’Appennino Reggiano per scrivere un nuovo disco

Decisamente non capita tutti i giorni di incontrare un progetto come quello dei Deaf Kaki Chumpy.

La loro storia è intrecciata con altre come quella della realtà del Lume o della Corte Dei Miracoli, locali dell’underground meneghino che offrono un rifugio per i jazzisti spaiati, per le jam notturne e per un genere che non ha poi così spazio, e che sembra spesso evitato dalle playlist Spotify o dalle line up dei Festival. Eppure eccoli qui, a scrivere il loro terzo disco, chiusi in una casa ai confini del mondo (in realtà: in provincia di Reggio Emilia, sull’Appenino, vicino ad una chiesa chiusa di cui però hanno le chiavi, se mai volessero portare gli strumenti e provare nei pressi dell’altare o altre cose suggestive e strambe che ben si presterebbero ai Kaki).

Un collettivo, un caleidoscopico ensemble di cui hanno fatto parte anche Marco Castello e Pietro dei Tropea, una famiglia, un gruppo che vive fuori da ogni canone logico che imporrebbe il mercato oggi. Attivi dal 2015, due album alle spalle, ben 18 musicisti, una sezione fiati, un batterista, un percussionista, due chitarre, un basso, voci e tastiere. Ve lo immaginate? Suonare per la gloria perchè non ci sarà cachet abbastanza alto da poter essere divisibile per 18, tenere viva una realtà che non potrà suonare dal vivo nei locali piccoli, un gruppo imponente e d’impatto che non ha paragoni, e che è anche difficile da descrivere, perchè con i Deaf Kaki Chumpy ci sono influenze di ogni genere: Jazz, funk, rock, classica, elettronica, folk, etc… Si intrecciano senza soluzione di continuità

E tornando alla loro storia recente, li abbiamo osservati durante una residenza artistica che, oltre alle prove giornaliere mattina e pomeriggio per mettere in piedi e fare funzionare i nuovi brani, comprendeva le azioni quotidiane di ogni giorno: colazioni, pranzi e cene, cucinare, lavare piatti, pulire pavimenti e bagni, partite di lupus e dadi accompagnate da birrette e abbigliamento informale che constava di pigiama e ciabatte. Colazione, pranzo e cena, un’interazione che prevedeva lavare i piatti, cucinare, giocare a Lupus, ma anche provare i brani del prossimo disco, diverse ore al giorno, senza cellulari e isolati, in ciabatte e pigiama un giorno dopo l’altro, una birretta dietro l’altra, con condimento a base di partite a dadi. A raccontarlo, sembra di vivere negli anni Settanta, quando questo era l’unico modo per scrivere musica, quando musicisti e band erano anche coinquilini, fratelli, e ci si vive nella musica e nelle camerate. È diverso, dicono, suonare durante il breve arco temporale dedicato alle prove, mensili di solito, e invece provare ad oltranza, sapendo che non si ha nient’altro da fare, se non svegliarsi, bere il caffè, e suonare di nuovo. 

Montare e smontare tutto, organizzarsi con le macchine, la batteria, un mixer, tutti hanno portato il costume da bagno, ma nessuno si muoverà da quella casa neanche per sbaglio. L’obiettivo della residenza è imparare i pezzi nuovi, senza avere troppi vincoli di orari o lavori extra che allontanano i 18 musicisti dal progetto. Sveglia presto, colazione per tutti, qualche vegano, un celiaco, ma lo stesso cibo per tutti, una caffettiera grandissima che sembra bastare per tutti, prove, tante prove, una famiglia di ghiri che fa capolino nella taverna dove si svolgono le prove, qualcuno che ogni tanto si allontana di qualche metro, cercando qualche tacca di internet, per rinunciare abbastanza presto, altre prove, cena, e una valanga di docce che allogano i bagni, per poi finire a giocare al gioco dei mimi, a cui non tutti sanno giocare. Il buio, le mosche, cavi intrecciati e piedi nudi spesso e volentieri. 

Essere in 18” racconta il bassista Andrea Daolio, uno dei fondatori, “significa anche non conoscersi, non è come essere una band di tre o quattro elementi, ma bisogna immaginarsi di più come una classe scolastica, e servono un po’ di giorni e un po’ di tempo per conoscersi bene, per arrivare ad essere un gruppo coeso, farlo con delle prove normali, soprattutto dopo i continui cambi formazione, non è per niente facile, questo è uno dei modi che abbiamo per fare musica, ma non in modo freddo, studiando gli spartiti e poi tornando a casa come se niente fosse. Vivere insieme per un po’ è una bella soluzione”. E il pianista Matteo Ranellucci continua “… cambi formazione ne abbiamo avuti parecchi, l’ultimo più importante quando abbiamo ricominciato a provare quest’inverno, però è questo il bello di questo progetto, dove siamo continuamente influenzati da nuovi membri che hanno background musicali differenti”.

Li avevamo lasciati alla pubblicazione di “Stories” (2018), un EP che i Deaf Kaki Chumpy avevano presentato in concerto a Santeria a Milano, riempendo il locale all’inverosimile, che è stato sudatissimo e intenso, perchè non capita tutti i giorni di avere 18 persone su un palco, un’orchestra, una band, un complesso che fa ballare, e che si assorbe facilmente anche senza capirci troppo di musica, che al prossimo live dei Kaki vi sfidiamo a rimanere fermi, che è un piacere vedere un progetto del genere, fuori dalle mura accademiche, crescere e diventare grande, avere trent’anni ed essere costretti a scontrarsi con i nuovi ventenni, i nuovi della formazione, un miscuglio di storie, per l’appunto, che non sembra volersi fermare. E se li avevamo persi con il Covid, siamo contenuti di vederli tornare, tra una partita a carte e una pasta e fagioli in pieno luglio, per diciotto persone. 

Fabio Vettoretti
(grazie a Morgana Grancia per la collaborazione)

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