Articolo di Simona Ventrella | Foto di Andrea Ripamonti
Ieri sera Mark Lanegan ha portato il suo carisma e la sua inconfondibile roca e profonda voce sul palco del Fabrique di Milano. Un’uomo vero, forse l’unico songwriter sopravvissuto al periodo grunge, prima come leader dei Screaming Trees e poi in solitaria. Lanegan infatti da quasi un trentennio a questa parte è stato incredibilmente prolifico in un’era in cui nel rock and roll mainstream la media è un album ogni tre anni. Molte le collaborazioni: Queens Of The Stone Age, Greg Dulli, Isobel Campbel e Duke Garwood. Le sue canzoni, i testi e la musica riflettono da sempre una lunga vita difficile, e scavano fino all’osso l’ascoltatore, gettandogli addosso la cruda realtà. Sul palco del Fabrique questo moderno uomo nero si lascia avvolgere da pochissima luce, per rimanere immerso nell’oscurità e lasciare che sia la sua inconfondibile vocalità a squarciare il reverenziale silenzio del pubblico. Un pubblico attento, timoroso per tutto il live al cospetto di una leggenda del rock. Si comincia con Disbelief Suspension, brano del nuovo disco Somebody’s Knocking, che ha spostato ulteriormente il suono di Lanegan verso l’esplorazione della dark Wave anni 80 (Joy Division), aggiungendo una buona dose di elettronica al suo alternative rock, sporco di insonni e cupi blues. La scarsità dei primi dischi, quella che ti colpiva così forte quasi da stordirti è, ahimè, distante anni luce, ma non si dovrebbe vivere di sola nostalgia.
Lo sa bene Lanegan, che in un processo di evoluzione continua dimostra con passione la voglia di non rimanere ancorato al passato, ma di buttarsi in un continuo slancio al futuro. In questa prospettiva, sentori elettronici e nuove esplorazioni si erano già sentite nel precedente Gargoyle, che fa il suo ingresso in scaletta con la seconda Nocture. La chimica musicale con i musicisti sul palco, nonostante sia estremamente difficile riconoscerli nei movimenti, è chiara e lineare. La band suona e dalle tenebre, tinte di rosso e viola, l’elettricità e lo status di Lanegan emerge ancora di più. Si corre così sul filo del ritmo e delle melodie ricche e spesse fino alla strepitosa cover di Deepest Shade dei Twilight Singers di Greg Dulli, che riporta in sala, per quei pochi minuti, l’atmosfera ad una dimensione più intima. Un attimo breve che finisce troppo presto con Ode To a Sad Disco, che ci riporta sulla terra e ci ricorda che già nel 2012 Mark aveva iniziato a sviscerare la sua passione per la Manchester degli anni ‘80, nel suo continuo tentativo di scrollarsi da dosso l’annosa etichetta grunge. Tutto scorre in maniera fluida e concisa, senza colpi di scena e totalmente catalizzati dal gelido magnetismo di Lanegan, che lascia che siano le canzoni a parlare per lui, lasciando ad altri tipi di frontman l’interazione diretta con il pubblico, confermando la sua natura concreta e tenebrosa. Il nuovo Mark Lanegan prevale sul vecchio, lasciando poche perle ai nostalgici con Bleeding Muddy Water, Harborview Hospital da Blues Funeral del 2012 eHundred Days e Hit The City da Bubblegum del 2004. In un ora e venti, il set è consumato e il maestoso, statico, nonchè moderno uomo nero viene nuovamente inghiottito dalle sue ombre. Non resta che attendere la sua prossima apparizione.
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MARK LANEGAN – Setlist del concerto di Milano
Disbelief Suspension
Nocturne
Hip The City
Stitch It Up
Burning Jacob’s Letter
Night Flight To Kabul
Beehive
Bleeding Muddy Water
Deepest Shade
Ode To a Sad Disco
Gazing From The Shore
Penthouse High
One Hundred Days
Dark Disco Jag
Dead Trip To Tulsa
Encore:
Harborview Hospital
The Killing Season
