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Intervista ad ANGELO SICURELLA

Angelo Sicurella
Angelo Sicurella © Manuela Di Pisa

Artista raffinato capace di coniugare con estro ed eleganza l’elettronica con il cantautorato, Sicurella si è costruito prima come frontman degli Omosumo poi come solista, compositore e sound designer per il cinema, il teatro e la danza, un posto di rilievo nel panorama musicale italiano.

Cigni è un disco in cui l’amore fa i conti col cemento arido della razionalità. In bilico tra il declino e la rinascita, tra le sconfitte e le possibilità, è un disco che contempla la fine del mondo, scongiurandola. Parla dell’incapacità di accettare i propri fallimenti e della sensazione di inadeguatezza nel condividere i propri sentimenti e fragilità, ma nel profondo guarda ai colori del mondo. Come un cantastorie contemporaneo, Sicurella racconta l’amore nelle sue forme, attraversato da tormenti e catastrofi.

Come hai deciso di intitolare il tuo nuovo album “Cigni [Disco Bianco]” e qual è il significato dietro questo titolo?

Il cigno è un animale che mi ha sempre colpito, fin da quando ero bambino. C’era un giardino, vicino casa mia, dove mio nonno mi portava spesso a fare delle passeggiate. E lì, c’era uno stagno con un cigno solitario. L’insieme di mistero, eleganza e candore che contraddistinguono questo animale mi hanno sempre incuriosito, ma anche inquietato. Ho sempre pensato che dietro all’immagine pura del cigno si nasconda una sorta di rabbia dormiente, che il cigno mitiga e tiene a bada. Una sorta di guru che respira per tenere a bada i propri demoni. Infine, Cigni è [disco bianco], perché esiste un [disco nero], che deve ancora vedere la luce. 

Quali sono le tue influenze musicali e come le hai incorporate nel tuo lavoro?

Ascolto musica diversa quotidianamente. Spesso, quando non trovo una vicinanza sui testi, focalizzo l’attenzione sui suoni. I miei ascolti spaziano dall’ambient, all’industrial, al jazz, alla musica contemporanea o all’impro radicale, dipende dall’umore. Ultimamente mi sono imbattuto anche in ascolti rispolverati, quali Caravan, Gratefull Dead, Ash Ra Tempel, Gong, Banco del Mutuo Soccorso e altri.  Quanto alla scrittura, generalmente, mi lascio portare dal flusso, vedo dove mi portano i suoni e le parole, inseguendo quello che mi fa vibrare e che mi piace. Sperimento molto, mi lascio sorprendere dagli errori e mi prendo del tempo per arrivare alle cose. Accade lo stesso con i testi. Ci ritorno fin quando non prendono la forma che mi interessa, rispetto a ciò che intendo comunicare.

Qual è il processo creativo che hai seguito per scrivere e produrre questo album?

Avevo necessità di ragionare sull’essenziale. Mi sono dato un limite di venticinque tracce per brano, non di più. Limite che poi non ho rispettato pedissequamente. Ma il fatto di scrivere guardando al necessario, mi ha dato una visione che mi ha portato ad affrontare la musica e i testi in maniera diversa. Scrivere e produrre per me sono strettamente connessi. Solitamente scrivo pensando ai suoni e giocando con le parole. Solo con Città Deserte sono partito da una versione chitarra e voce. Poi ho capito che strutturare il brano su un synth e dei fraseggi vocali che dialogano con la voce principale era la chiave giusta per arrivare a quello che desideravo in termini di scrittura e di produzione. Quando sono arrivato quasi al punto di missare il disco, ho pensato che avrei potuto suonarlo insieme ad amici e amiche musicisti/e che stimo molto, dando spazio alle dita e agli strumenti. Ci siamo chiusi in campagna per una decina di giorni. L’energia che si è generata suonando mi ha fatto credere che dovevamo registrare in presa diretta. E così è venuto fuori il disco, suonato quasi tutto dal vivo. Il lavoro diviso in due studi. Al Posada Negro di Roy Paci, le prese dirette. A Indigo, le voci, i cori e le sovraincisioni. Qualcosa l’ho lasciata così come l’avevo registrata a casa mia, nel mio studio, perché legata a qualcosa di intimo e di particolare – a queste cose ci tengo tanto e puntualmente si ripresentano. Cigni è nato in questo modo.

In “Cigni [Disco Bianco]” ci sono nove canzoni che affrontano temi molto profondi e intimi. Cosa ti ha ispirato a scrivere queste canzoni?

Venivo fuori da un periodo difficile. A un certo punto ho capito di voler viaggiare col flusso, come mi capita spesso di dire oggi. Ho smesso di cercare di essere determinista e andare col flusso mi ha restituito il desiderio di lasciare che le cose siano. Penso che il mondo in qualche modo ci sappia. La pandemia d’altronde è emersa come conseguenza del nostro modo di manifestarci. E la sua epifania ha reso evidenti diverse condizioni che facevano già parte del nostro mondo, causando anche diverse cose spiacevoli, ma contestualmente (e mi riferisco al mondo delle piante e degli animali) ha dato luogo a delle cose inaspettate che inizialmente suonavano come delle bizzarrie, ma che invero non era altro che il naturale corso delle cose in nostra assenza. Nelle riflessioni di quello che era accaduto nel mio microcosmo vitale e quello che stava accadendo nel macrocosmo pianeta è nato il disco e le riflessioni in esso contenute.

Come hai deciso di includere i suoni sintetizzati e le drum machine nella tua musica e come pensi che abbiano contribuito al suono complessivo di questo album?

Il disco è nato dalle macchine e da un organo che avevo a casa. Poi tutto è stato masticato in band. Questo è stato un passaggio naturale. Ed è accaduto proprio perché ho lasciato fare al flusso delle cose. Quanto ai sintetizzatori, mi viene difficile pensarmi senza. Fanno parte del mio percorso. In termini di suoni di produzione, invece, è accaduta una cosa singolare. Ovvero, benché avessimo lavorato con dei sintetizzatori che sono anche una sorta di firma sulla sicurezza in termini di timbrica e di profondità dei suoni, quando siamo arrivati in studio, abbiamo trovato dei sintetizzatori anni 70 italiani. Come dei bambini davanti alla cioccolata, abbiamo mollato tutto e ci siamo messi a suonarli senza fermarci. In un paio d’ore, avevamo testato tutto e capito che per le registrazioni dovevamo usare quelli, mettendo da parte quasi tutti i synth su cui avevamo costruito la pre-produzione. Cose folli anche in questo. Ma alla fine questo è il bello. Lasciarsi sorprendere fa parte del gioco.

Il tuo album affronta temi universali come l’amore, la sconfitta e la rinascita. Qual è il messaggio che speravi di trasmettere ai tuoi ascoltatori attraverso queste canzoni?

Io credo che quello che accade oggi, a noi e al mondo, sia sotto i nostri occhi. Non c’è da aggiungere tanto rispetto a ciò che costerna continuamente il quotidiano. Penso che il messaggio più forte contenuto nel disco sia quello di imparare ad amarci così come siamo, senza chiedere altro a noi stessi. Di essere in grado di dircelo e di dirlo anche agli altri e alle altre. Penso che non abbiamo bisogno di essere o di diventare qualcuno. Mi sembrano frasi e concetti desueti. E credo che darci un senso diverso, darlo alla nostra esistenza, a questo mondo, sul quale ci troviamo a passare una parte delle nostra esistenza, possa servire a viverci meglio. Questi sono i messaggi contenuti in questo disco.

“Cigni [Disco Bianco]” sembra avere una forte connessione con l’idea di un mondo che sta attraversando una fase di transizione. Come pensi che la tua musica possa essere utilizzata per affrontare e superare questa fase di transizione?

Penso che la musica sia uno strumento per essere in un luogo che non è necessariamente un luogo fisico. E noi creiamo connessioni con quello in cui ci riconosciamo. Connessioni che comunicano su più livelli del nostro sentire. Oggi siamo in una fase di transizione, da un mondo vecchio a un mondo nuovo, si sente nell’aria di ogni argomento importante che riguarda il nostro vivere. Non stiamo più a certe regole e condizioni che sono state distintive di un modo di fare che adesso non ci rappresenta più. Quanto alla musica, alla mia musica, qualcuno probabilmente si aprirà al messaggio di questo disco, alle parole, ai suoni e io sarò felice di condividere una parte di me. Ad altri sembrerà indifferente, com’è naturale che sia. Quello che cerco io è l’incontro. E in questo incontro ho bisogno di scoprire l’altro. Ho un desiderio bambino di sentire. Una necessità profonda di sentirmi negli occhi di qualcun’altro o di qualcun’altra. E la musica e le parole sono il mio strumento.  

Come descriveresti la tua evoluzione musicale dal tuo primo album al tuo nuovo lavoro?

Il mio è un percorso di ricerca. Mi piace ricercare nei vari linguaggi e portarmi dentro qualcosa. Ogni disco è la tappa di un viaggio, di un percorso. Mi piace l’idea di togliere il superfluo per arrivare al nocciolo delle cose. Forse è li che mi dirigo. E credo che il medesimo processo di chiarificazione del mio linguaggio mi approssimi alla gente. Quello che cerco in fin dei conti è l’incontro. Perché è l’incontro che ci nutre sopra ogni cosa.


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