Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Se potessi rendere in parole il live acustico di Fink, al secolo Fin Greenall, di ieri sera al teatro Arca Milano (grazie a Barley Arts), userei un haiku. Composizioni dal sapore lontano come le nostre coscienze tirate nel tran tran di città struggenti come Milano. Una parentesi di bellezza sfregata su corde in un dialogo a due in cui l’altro è cassa di risonanza della dolente sturm und drang interiore della propria controparte. Il pubblico non è altro che il validatore di un lungo flusso di pensieri baciati da un’inaspettata grazia.

Non eccederei nel lirismo se non avessi avuto modo di percepirlo chiaramente nell’intimità dai colori freddi del bunker dell’Arca. Una pastorale predicata con voce roboante in un ambiente berlinese: a primo impatto, il non plus ultra del radical chicchismo di chi ha passato abbastanza tempo in console per apprezzare gli echi di praterie viola, ancora umide di brina mattutina. Ma Greenall e socio arrivano così concretamente potenti da far crollare anche la più inacidita delle Caterine che vanno in città come la sottoscritta. Del resto, chi è sul palco ha passato una vita ad interfacciarsi con un pubblico difficilissimo (quello inglese), su diversi generi (incluso ik disc jokeing) e da diversi fronti (cantautore, chitarrista eccezionale, produttore, uomo delle etichette), passando dagli scenari puri della Cornovaglia alla contaminazione londinese degli anni ’00.
Ed è un po’ quello che abbiamo visto ieri, con la presentazione del suo ultimo lavoro, un arrangiamento in chiave acustica dei suoi pezzi nell’arco di dieci anni, salutato da un titolo che in acronimo, IIUII (It is Until It Is), visualizza il personalissimo Stargate di Fink verso l’essenza della sua produzione. Veniamo così catapultati nel multiverso della versione sistematicamente migliore o più desiderabile di noi, a contatto con la Mecca dei nostri desideri di autenticità.

Greenall, accompagnato da un talentuoso Tomer Moked con chitarra e un violino il cui ruolo è dispiegare la soundtrack emozionale di questa confessione a solo, è imponente e incredibilmente dolce mentre libera dinanzi a un nutrito gruppo di pochi spiriti eletti il suo “in verità vi dico”, e avvia il suo personale pellegrinaggio verso sè stesso. We Watch the Stars apre la traversata nei campi, anticipata da una lunghissima, intensissima intro strumentale, e già ci pare di capire che il viaggio inizi al crepuscolo, perchè si sa, i veri noi emergono nell’inconscio della notte. E’ un country folk dalle tinte nere, che si distorce con graffiante violenza nella versione acustica, strappata di Pilgrim. Sono forse le tre di notte e il nostro Es notturno emerge a tratti metallici, leggermente synth con Sort of Revolution, per arrivare alle prime luci dell’alba con il refrain ossessivo e avvolgente di Looking Too Closely, bello e intenso come la fuga di mezzotte che non avresti dovuto mai iniziare. Dopo la tempesta delle prime luci arriva la presa di coscienza di Yesterday Was Hard On All Of Us fino agli orizzonti di frontiera pizzicati sulle corde del violino di Warm Shadow, un’eterna ballata che tinge di intrusioni elettroniche la frontiera che stiamo puntando da tutta la notte. La carovanata della speranza giunge fino alla “therapy song” di Greenall, Cracks Appear, in cui le sviolinate arrivano a crepare il muro invisibile dello spettatore, per concludersi con This Is The Thing, Wheels e in encore una oniricissima Berlin Sunrise a sugellare la fine del viaggio.

Di questa dolcissima via Crucis rimane la delizia di un cicerone che ci svela come arrivare all’osso delle cose non sia un’alternativa oggi, che si ritorna ancora lentamente sui palchi, quanto un imperativo categorico di sopravvivenza. Bisogna lasciarsi andare e rischiare di scoprirsi, poco a poco, anche in un live ben selezionato, lasciandoci guardare con poesia. E lo sa bene un artista con all’attivo già dieci dischi, ma che in undici canzoni e un’ora e qualcosa di concerto (che sembra più una passione) ha riassunto i capisaldi di una costante, autentica ricerca di significato nella brulicante, spesso troppo parassitaria e mai uguale a se stessa industria musicale. Menzione speciale per l’apertura del neozelandese trapiantato a Londra, Finnegan Tui, che ha aperto e aprirà le prossime date di Fink in Italia: in perfetta linea con il suo Vate, è una boccata di aria fresca in una giungla di apparizioni. Infatti, il rischio in questa estrema ricerca dell’Io assoluto è che l’estetica dello sforzo avvilisca l’oggetto della scoperta. Ma nasconderci dietro pettinatissime piume non ci renderà fantastici uccelli del paradiso: solo spiccando il volo verso l’ignoto, rendendoci essenziali alla vista, lo saremo davvero.
Clicca qui per vedere le foto di FINK e FINNEGAN TUI in concerto all’ARCA (o sfoglia la gallery qui sotto)
FINK – La scaletta del concerto di Milano
We Watch The Stars
Pilgrim
Sort of Revolution
Looking Too Closely
Yesterday Was Hard On All Of Us
Warm Shadow
Walking In The Sun
Maker
Cracks Appear
This is The Thing
Encore:
Berlin Sunrise
